Exodus – Dei e Re
L'Egitto come una corte elisabettiana e un Dio bambino a vendicare il proprio orgoglio ferito
Tutta la carriera di Ridley Scott, sin dal folgorante esordio de I duellanti, è attraversata da una traccia storica, un cinema epico al confine con la biografia che da connotati canonicamente più autoriali (un’antispettacolarità riflessiva unita ad una resa pittorica dell’immagine) è andato configurandosi quasi come un genere dentro al genere. Da Il gladiatore a questo Exodus – Dei e Re scorre infatti una linea dalle coordinate molto precise, che possiamo ritrovare rispettate anche ne Le Crociate – Kingdom of Heaven e Robin Hood: per Ridley Scott il racconto storico oggi è anzitutto l’epica della macchina cinematografica stessa, è la messa in evidenza del professionismo industriale che contraddistingue il racconto hollywoodiano. Nessun altro autore ha portato avanti con altrettanta coerenza un percorso simile, un’ossessione visiva che travalica la coerenza storica sfruttandone a piacere le suggestioni, dedicandosi piuttosto a mettere in scena anzitutto il farsi del mito attraverso l’immagine di un cinema americano solido e spettacolare. Exodus quindi rispecchia totalmente tale visione, rendendo la liberazione del popolo ebraico l’esito di una faida shakespeariana tra due fratelli mediata da un dio bambino violento e vendicativo, quasi incomprensibile nella sua assenza di pietà.
Indipendentemente dagli sceneggiatori coinvolti (questa volta si tratta di Steven Zaillian), l’eroismo per Ridley Scott segue dei connotati ben precisi, e il Mosè interpretato da Christian Bale non fa eccezione. I legami più evidenti sono soprattutto con Massimo Decimo Meridio, con il quale Mosè condivide il rapporto fratricida con il suo antagonista e il miraggio oltre la battaglia, il ricongiungimento finale con la propria famiglia. In mezzo scambi di parti e rivelazioni teologiche, una missione divina che suona come una maledizione. Come il Chris Kyle di Clint Eastwood anche Mosè sconta la sua unicità come condanna, entrando spesso in conflitto con Dio. Il modo con cui Exodus tratteggia la divinità è del resto uno dei suoi aspetti più interessanti: non tanto per la rappresentazione infantile di Dio ma piuttosto per la sua ira, l’incontenibile (biblica) furia scatenata contro chi si arroga il diritto di chiamarsi a sua volta divinità, i Faraoni e Ramses su tutti. Di conseguenza Scott non risparmia uno sguardo di pietà e compassione nei confronti dei dominatori egiziani, vittime dell’orgoglio ferito di un figlio privo dell’amore paterno. Il focus del film è tutto lì, nella corte quasi elisabettiana del faraone Seti (John Turturro), che mal divide il suo affetto di padre tra il figlio legittimo e quello acquisito, generando il conflitto che anima tutto il film. Peccato però che rispetto al passato lo sguardo di Scott paia meno interessato e a fuoco, la prima parte di Exodus cattura e coinvolge (complice la resa dell’ennesima battaglia, come di consueto efficace e d’impatto) ma per il resto il film sembra smarrire la sua strada, accontentandosi di brevi momenti di epifania.
L’impressione generale guardando Exodus è quella di un film davvero troppo interessato alla superficie rispetto al suo bagaglio tematico, uno squilibrio forse mai così evidente nel cinema epico di Scott. Scartate fuori campo le sofferenze degli schiavi ebrei, che nonostante i volti di Ben Kingsley ed Aaron Paul non arrivano mai al centro del film, il focus della storia restano i due fratelli acquisiti, Mosè e Ramses, ma non bastano le ottime interpretazioni di Bale e Joel Edgerton a renderli due personaggi completi. Soprattutto Mosè pare costantemente fuori scena, alle prese con un Dio che non lo ascolta nonostante per lui abbia sacrificato ogni cosa. Quella che viene mostrata è l’ambiguità di un personaggio diviso tra due mondi e popoli, tra violenza e pietà, ma poco di questo arriva veramente allo spettatore.
Dove Exodus torna a guadagnare attenzione è ovviamente nella resa delle piaghe d’Egitto, una punizione che come una raffica inarrestabile abbatte la volontà degli egiziani fino al colpo di grazia finale, la perdita dei primogeniti. Una violenza che com’è tipico nell’epica di Scott viene mostrata in tutto il suo impatto, mimando una resa realistica dell’accaduto. Tuttavia anche in questi momenti più liberi Exodus sembra aggrovigliato su sé stesso, le piaghe arrivano tutte insieme e il film sembra intraprendere una corsa verso la grande liberazione finale, l’apertura del Mar Rosso e il ritorno dell’acqua ad abbattere definitivamente gli egiziani. Qui Scott ritrova finalmente il suo sguardo, nell’addio dei due fratelli accecati da fede e dolore mentre una montagna di acqua si riversa su di loro, a cancellare sogni, desideri, vite, per un pellegrinaggio il cui esito futuro non sarà meno sanguinoso.