War Machine
Dotato di una verbosità che ne intacca l'efficacia visiva, il film di David Michôd prodotto e interpretato da Brad Pitt è un ibrido indeciso tra i vari registri e incapace di lasciare il segno.
War Machine: 73 anni dopo aver marchiato i principali leader nazisti ed aver fatto detonare la Storia all’interno di una sala cinematografica, Brad Pitt torna in Europa nei panni di un ufficiale statunitense con l’obiettivo di reclutare altri “bastardi” per la sua nuova missione. Il territorio di guerra, stavolta, si è spostato in Afghanistan e Pitt interpreta il pluridecorato generale Glen McMahon, ispirato alla controversa figura di Stanley McChrystal, comandante delle truppe NATO in loco e rimosso dall’incarico un anno dopo a causa di un’intervista pubblicata da Rolling Stone, in cui McChrystal criticava aspramente l’amministrazione Obama.
McMahon è un uomo tutto d’un pezzo che ha conquistato i suoi successi sul campo, a differenza dei molti burocrati «che hanno ottenuto il loro potere con il fascino e la seduzione», convinto che sia necessario «costruire cuori e menti di un’Afghanistan libera e prosperosa (…) grazie all’azione dell’esercito, in grado di dare ordine nel caos della guerra».
«How’s it going to end?» recitava la spilletta indossata da Lauren in The Truman Show. Come andrà a finire la guerra? In modo semplice, secondo la prospettiva di McMahon: gli americani vinceranno o perderanno. Tuttavia, secondo la voice-over dell’autore dell’articolo di Rolling Stone che accompagna l’intero film diretto da David Michôd, il generale vive dentro una bolla che lo protegge dal mondo reale e dalla quale non è in grado di leggere correttamente la realtà, in preda ad un delirio di onnipotenza che lo rende incapace di riconoscere i suoi limiti e di adeguare le proprie convinzioni alla realtà dei fatti.
Brad Pitt è l’assoluto protagonista del film. Le immagini, durante il primo sintagma che presenta il personaggio, sono sufficientemente eloquenti. Ogni movimento di macchina è un recadrage più o meno accentuato che spinge McMahon al centro dell’inquadratura, in accordo con il ruolo sempre più di spicco di Pitt come produttore di film di primo piano nel corso degli ultimi dieci anni: da L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford a Cogan di Andrew Dominik, da The Tree of Life a Voyage of Time di Terrence Malick, fino ai recenti 12 anni schiavo, La grande scommessa e Moonlight, protagonisti delle ultime edizioni dei Premi Oscar. In tal senso, orizzonte filmico e reale coincidono nella delineazione del personaggio McMahon/Pitt.
Dal momento in cui War Machine inizia a perseguire un’alternanza di registri e di toni (la commedia, il war movie classico e la sua destrutturazione, la satira e persino il genere sentimentale), la coesione del film tracolla sotto ai colpi di una verbosità che pone in secondo piano l’importanza delle immagini. Tutto quanto viene spiegato verbalmente ed il film si trasforma in un ibrido che non sa quale percorso intraprendere finendo per scegliere una strada pedagogica che cozza fortemente contro il tono perseguito nel corso di alcuni sentieri (i momenti più riusciti e divertenti sono quelli costruiti sulla falsa riga de L’uomo che fissa le capre di Grant Heslov e Burn After Reading dei Coen).
McMahon è un novello Truman Burbank che resta vittima della rappresentazione ordita dal suo stesso sguardo. O ancora, è un Billy Lynn privo del suo carattere timido e destinato ad una differente via di fuga: la chiusura in sé stesso. Per questo in War Machine la guerra è confinata a poche secondarie sequenze e non assume i toni salvifici che la distinguevano nell’ultimo teorico prodotto di Ang Lee, in cui la fedeltà e la compagnia dei commilitoni erano considerate l’ultimo baluardo di sincerità in cui proteggersi dal cannibalismo mediatico. Il film di Michôd si dimostra debole e privo di una forte idea di fondo da perseguire. Le tesi sono troppe e si intrecciano tra loro, finendo per privare il prodotto Netflix del maggior bilanciamento di cui avrebbe avuto bisogno.