Felice chi è diverso

Si parte da molto lontano in Felice chi è diverso, addirittura dall’epoca fascista, per raccontare l’omosessualità maschile quando questa sulla carta non esisteva nemmeno nella società italiana: strano paradosso di una società talmente ossessionata dalla virilità di corpi – si veda, un esempio fra tanti, la costruzione dello Stadio dei Marmi a Roma – da suggerire l’ipotesi di un’omofobia di Stato necessaria a nascondere istinti poco accettabili. Una repulsione simile alla paura di un virus capace di sovvertire il paese poi incarnata, come nei peggiori incubi, nel dilagare dell’Aids negli anni Ottanta, di cui si era convinti i gay e i tossici potessero essere le sole vittime giustamente punite dei propri peccati – si veda il neo premio Oscar Matthew McConaughey, così etero, macho e texano, incredulo di fronte alla propria diagnosi sieropositiva in Dallas Buyers Club. Da Mussolini si va fino alla più grande personalità omosessuale del nostro paese, Pier Paolo Pasolini, con il lento emergere di un non detto che nel suo primo affiorare acquistò negli anni Sessanta la forma di lato sporco, nascosto, di parte di una comunità altrimenti perbene che aspettava la notte per esprimere i propri desideri più turpi su cui non doveva mai sorgere il sole. Articoli scandalistici, vignette sarcastiche, gag, servizi televisivi alla ricerca dello shock, un po’ di cinema, questa la copertura mediatica di un fenomeno che Gianni Amelio riporta in luce passando dalle immagini di repertorio alle voci reali di chi nelle grandi città o nei paesini, ricco o povero, scopriva di non essere come gli altri.

A che dovrebbe servire un film su una questione che formalmente si crede oggi pacificata al punto di far dichiarare taluni nauseati dall’odierno politicamente porretto che si dice, ha finito per uscire dai propri argini per assegnare a una minoranza un’aura di sacro martirio? Forse a far ricredere sul reale cambiamento dei tempi. Alla conferenza stampa del film a Roma Amelio ha definito la critica dell’Hollywood Report di un film “vecchio e datato” come il miglior complimento possibile per la sua opera. Si vorrebbe sperare che sia proprio così, come in quella favola di Rodari in cui un gruppo di alunni del futuro in gita al Museo del Tempo che Fu guardano stupiti, chiusa in una teca, la parola Piangere e si chiedono cosa fosse e a cosa servisse. Ma questi vecchi anziani che si raccontano, una volta giovani ragazzi cacciati di casa, rinchiusi in manicomio, costretti a rapporti sessuale con prostitute due volte al dì per curarsi non sembrano ancora fare davvero parte di un’epoca lontana dalla nostra. C’è, in Felice chi è diverso, soprattutto la questione tuttora irrisolta del rapporto del maschio italiano con la propria fragilità traslata in un concetto esclusivamente femminile nel quale si vuole racchiudere tutta la vulnerabilità dell’essere umano, come esprimere le emozioni, voler bene alla propria madre, essere sensibili alla bellezza. Cosa non vera che fa torto a entrambe le due categorie sessuali, eppure molte delle storie narrate, per quanto diverse, parlano di ragazzi rifiutati dai propri padri e accettati dalle madri, coloro che invece “capiscono”, che riconoscono subito la reale natura dei figli. E l’inevitabile compassione che si prova di fronte a questi racconti è forse un buon punto di partenza, ma solo l’inizio e non la soluzione del problema, che sta nel comprendere che non c’è proprio nessun problema, e basta. Dopo tanto Passato ecco allora il volto di Aaron, un ragazzo di oggi, il presente della nostra società, che di fronte all’espressione di pietà della madre si ribella e chiede non indulgenza ma rispetto. Non resta che andare avanti, lottare e attendere, sperando di non far brutta figura di fronte agli studenti in gita di domani.

Autore: Veronica Vituzzi
Pubblicato il 16/08/2014

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