Fino all'ultima metafora: come vede Jean-Luc Godard?
La metafora come chiave d’accesso a un mondo ulteriore: con Adieu Au Langage, Godard filma l’atto stesso del non vedere.
Jean-Luc Godard ha ottantaquattro anni, che potrebbero essere duecento, o forse anche venti. Se opera chirurgicamente una distruzione, se combatte il linguaggio con la forza dirompente dell’addio stereoscopico, allo stesso tempo compone un’opera che ha tutto il sapore di un nuovo inizio: Adieu au langage è l’alba strabica di un cinema futuro sempre rivolto verso l’altro da sé. La visione del film coincide con quell’esperienza beffarda in grado di scalfire poteri logocentrici, razionalismi da quattro soldi, fedi illuministiche e presunte tautologie dell’immagine. Perché Godard, con fare sardonico, disturba, aggredisce, gioca, investiga e sconquassa, sovrappone e nega, respingendo qualsiasi idea di sintesi, qualsivoglia formula con cui poter dire il mondo e la realtà.
Il mondo non si dice al di fuori degli occhi di un cane.
Bisogna pensare a un linguaggio privo di parole, a un codice negato che riveli l’assoluta, incontrovertibile inconciliabilità del reale. Sembra quasi dire, Godard, che le parole ci parlino, quali germi che dislocano il corpo, quali virus che abitano la mente, pronti a espandersi attraverso le nostre persone. Comportandosi come un agente patogeno e dissidente, il logos crea sovrastrutture atte a dominarci, a gestire e a condizionare crudelmente le azioni umane. L’uomo si rivela fonte, sorgente metaforica continuamente rivolta all’altro: la metafora è d’altronde l’assidua, problematica messa in moto, la figura retorica che può denudare, disvelare e quindi destrutturare l’umano. Ma, soprattutto, la metafora è la chiave d’accesso per un altro mondo e per un diverso modo di vedere e sentire l’altro del reale.
Il corpo godardiano è massa esile e trasparente, involucro inane e tragicomicamente vuoto, abitato da quel logos che edificò – e continua a edificare – enormi, gargantueschi templi sovrastrutturali. Culture millenarie, usi, costumi, modi di dire e fare, completamente soggetti al punto di vista imperante del verbo.
Ancora una volta mots, interpretazioni antropocentriche di una realtà che va da un’altra parte. "Il cane ha un’aria malinconica" dice lui, "niente affatto" dice lei. Lui e lei sono un uomo e una donna, costanti variabili declinate all’infinito. Il cane è unicum indecifrabile, irriducibile a qualsiasi interpretazione. La voce rivela che l’animale parte per un’avventura, quando in realtà sguazza semplicemente in un bosco, senza meta o direzione alcuna. L’esegesi, la critica, la cultura stessa si sbriciolano in un istante, si frantumano in mille pezzi, rivelando tutta la loro decadente, esilarante inconsistenza. Il linguaggio risponde all’appello come morte della vita, educazione al vizio, fonte d’accumulo e di corruzione della sostanza. Il cane non sa, il cane vive: se i suoi occhi vedono l’esterno, i nostri sono interamente rivolti verso l’interno, tanto accecati quanto negati.
Il linguaggio nasce dal confronto, dice Godard. Non c’è linguaggio senza 2. Il 2, demiurgo ancipite, gentile e crudele, gestisce i rapporti umani, fornendoci il nostro quotidiano piatto di lenticchie. Il 2 ci dona l’illusione di apprendere le cose solo perché ne conosciamo il nome: il linguaggio è l’utopia sconsacrata di chi ha dimenticato le (non) leggi della vita in subbuglio.
Gli occhi godardiani di Adieu au langage sono quelli dell’esploratore che getta l’ancora in terra sconosciuta. Sguardi che non si rifugiano in quella che, per mancanza d’immaginazione, chiamiamo realtà ma in un luogo altro, pittorico e deforme, sempre eventuale. Il miraggio godardiano è regno catastrofico-auratico popolato di pixel febbricitanti, di colori saturi e densissimi che squarciano violentemente la superficie dell’immagine. In questa virulenza, in questa concezione pulsante di immagine-lotta, Godard rimane il più militante, il più politico, il più urgente dei cineasti viventi.
Adieu au langage più che un addio è un vero e proprio ritorno a casa, dopo decenni di vizi e perversioni della forma: il film fa pace con il dispositivo cinematografico, fuoriesce dalle storie e dai personaggi per recuperare la sua più intima essenza: quella delle macchie di luce in movimento.
Godard è infatti un disegnatore marziano che modella la luce, trasfigura gli elementi, sovrappone i piani della visione e restituisce libertà allo spettatore: il suo disturbarci non è mai provocazione fine a se stessa ma, anzi, tentativo disperato e vitalissimo di risvegliarci dal torpore quotidiano, dalla cultura mercenaria e dalla catalessi che pare attanagliarci. Bisogna morire per poter rinascere: il cinema è morte a ventiquattro fotogrammi al secondo, ma anche continuo, imperterrito risveglio. Nella fantasia di Mary Shelley, del resto tutto era già chiaro, poiché, dietro al mostro di Frankenstein, si nasconde il segreto di Adieu au langage: materiale eterogenei quali organi, connessioni interne, frammenti di corpo volti a cantare stonati per dar vita a una vera e propria immagine mentale.
A questo punto, sarebbe assurdo non intercettare nella metafora il centro nevralgico del film. Come Derrida insegna, la metafora è anamnesi, scoperta di un nuovo mondo, termine di paragone che permette l’accesso a una realtà altra, citeriore e assieme ulteriore: ogni elemento della Terra, uomo, donna, animale o cosa, è segno, portale d’accesso, infine immagine. Il linguaggio stesso è metafora, punto di partenza per una visione che non si dà immediatamente, ma si nasconde, rifugge il nostro sguardo, vive celandosi, si presentifica negandosi.
Se è impossibile produrre un concetto d’Africa, si deduce che l’Africa stessa sia una metafora, ipotesi di rilancio per disvelare una nuova configurazione della realtà. E infine l’uomo: quest’animale pensante, quest’insieme di segni complessissimi dominati dal verbo, è metafora, (s)oggetto da sottoporre a un ennesimo moto traslativo. Ci si chiede, certo, a cosa alluda questa metafora, dove porti, quando porti e soprattutto se porti a qualcosa.
Se il linguaggio ci trascinasse inevitabilmente nel baratro della sua (e della nostra) distruzione, bisognerebbe svelare il retrofondo illuminato di ogni elemento, il bagliore che irradia le apparenze, ma soprattutto ciò che va oltre l’1 e 2: il 3D, per l’appunto. Sdoppiare il campo, riformulare, ridefinire, complicare, inebriare, mai condensare. Ma non si finirebbe così per creare un nuovo linguaggio? E se fosse allora l’aporia, il cul de sac, il paradosso reiterabile, l’unica realtà in grado di essere abitata?
In questa direzione va ovviamente il 3D: l’immagine stereoscopica di Godard rivela se stessa, presentandosi come fastidiosa, dissonante, scissa e perfino schizofrenica: ella è sempre pronta a dichiararsi guerra da sola. Le sovrimpressioni, le dissolvenze, non sono più atti d’amore tra le immagini, ma potenze dialettiche predisposte a sfidarsi, a toccarsi, senza creare sintesi alcuna, ma vivendo e alimentandosi in uno stato di massima tensione. Questa tensione giunge a parossismo quando vengono sovrapposte due immagini eterogenee, che portano lo spettatore a incrociare lo sguardo: l’unica visione possibile è quella strabica e alterata. Nel rifiuto di questo strabismo, il nostro cervello consiglia di chiudere almeno un occhio: quello che succede è che una volta chiuso l’occhio destro vedremo un’immagine, una volta chiuso quello sinistro ne vedremo un’altra. Lo spettatore decide quale non-storia seguire, quale visione assecondare e testare. Si trova così finalmente a scegliere, respingendo qualsivoglia passività recettiva e riscoprendo, al cinema/col cinema, la sua emancipazione dallo statuto di semplice spettatore.
Dire Adieu au langage significa spezzare l’incantesimo che vuole ogni parola associata a un’immagine precisa e collaudata. Così agisce anche l’intera pista sonora: scorretta, frammentata, composta di suoni saturi e interferenze improvvise. Il fastidio deve necessariamente deturpare l’armonia, la musica andare e venire senza alcun rispetto, apparendo e scomparendo. La bellezza godardiana si trova tutta nel momento appena passato e in quello che sta per venire. E’ la forza baluginante di un’apparizione che non è ora, ma è stata già e sarà tra poco.
Ancora una volta, bisogna disimparare il cinema, bisogna imbarbarirsi e imbastardirsi, debellando il buonsenso e le nozioni vane dei magisteri culturali. Infine, con furia iconoclasta, avanzare alla volta di un nuovo mondo. Due bambini camminano, come in un dolce e privatissimo filmato di famiglia, mentre un cane si rotola a terra: si può tornare all’immunità, si può nascere innocenti, ci si può liberare dalle fauci logocentriche di un vigente ipercodificato?
Questo (non) è Adieu au Langage: il tramonto nasconde l’alba fino all’ultimo respiro. Poi il giorno rinasce.
(ultimi appunti per una scrittura necessariamente inesauribile: il filosofo è colui che si inquieta dello sguardo dell’altro/il cinema è, ancora una volta, ipotesi rammemorante che conserva tutte le sue histoires, soprattutto quelle mai scritte e mai viste//ma non sarà mai che Adieu au langage sia un film diverso a ogni nuova visione, pieno di passaggi segreti e scorciatoie improvvise?/// Le sue immagini ricordano quelle antiche wunderkammer che si rivelano nell’...