Stavolta neanche il ghigno del miglior Bruce Willis in versione John McLane riesce a tenere in piedi uno spettacolo costoso ma con le colonne, gli infissi e le fondamenta estremamente gracili. Come costruire il più prestigioso grattacielo al mondo usando cemento misto a sabbia. Crolla al primo tremolio. Certo, può sembrare un paragone molto lontano, ma se si va ad esaminare il film ci si può facilmente accorgere di quanto sia banale e al tempo stesso fragile tutto l’apparato filmico. L’esordio alla sceneggiatura per Tom O’Connor è tutt’altro che glorioso, anzi. Il tutto rimane semi affascinante per i primi quindici minuti circa, per poi proseguire con dei buchi clamorosi e dei dialoghi al limite del ridicolo, tali da far vergognare anche il più classicista dei dialoghisti americani, ancorati alle classiche espressioni strappa lacrime e pseudo premurose. Ci si trova poi davanti ad un dominio di effetti speciali ben fatti, per carità, ma fini a se stessi. Del resto, con tutto il rispetto possibile per David Barrett, forse il suo passato da stuntman e da ruoli limitrofi è ancora troppo forte dentro il suo concetto di regia.
I cliché visti e rivisti sono veramente troppi e accozzati in una macedonia di stereotipi, spari e fuoco che nemmeno nel peggior John Rambo sono presenti, in particolar modo all’interno dei personaggi stessi. E qui torna protagonista senza dubbio il caro O’Connor: i suoi protagonisti sono la quasi perfetta incarnazione di un cocktail di cinquant’anni di cinema americano, quello che ha fatto degnamente il suo tempo ma che forse è ora di cambiare. A partire dal personaggio principale, il vigile del fuoco Jeremy Coleman (il mediocre Josh Duhamel) che dona la sua vita alla legge e si innamora della “legge” stessa, ovvero di una poliziotta (anzi una “ranger”, per essere più a stelle e strisce) che prende il nome di Talia Durham. Mettendo da parte il ruolo di Rosario Dawson (sempre piuttosto brava), l’agente federale appena citata, si può passare a parlare dell’altro braccio della legge, quello armato e in avanti con gli anni di Bruce Willis: non è quello di Die Hard né tanto meno quello di Hostage; raffigura infatti un mix di anzianità e voglia pregressa di vendetta che sfocia però sostanzialmente per mano di altri. Decisamente insolita quindi la prestazione del buon Bruce, che comunque con la sua sola presenza scenica occupa sempre più che discretamente tutto lo spazio messogli a disposizione. Continuando a scorrere nella lista dei personaggi e andando in “levare” si giunge ad una delle poche note positive della pellicola, ovvero il bravissimo Vincent D’Onofrio nei panni del gangster filo nazista Neil Hagan.
D’Onofrio in Fire with fire è Cattivo, nel modo più estremo e al contempo puro possibile. L’evoluzione artistica di quest’attore è completa davvero, e anche in questi panni risulta essere veramente in splendida forma. Una delle poche note positive, dicevamo. Non si tratta infatti di flop clamoroso, ma poco ci manca. Perché la “magnifica” perfidia di D’Onofrio impatta contro un muro di inadempienze stilistiche e di sceneggiatura piuttosto eclatanti. Perché la vecchia e logora solfa dell’uomo buono che per amore salta la barricata del confine tra legge e criminalità risulta noiosa a dir poco oltretutto se per di più nella sceneggiatura non vengono introdotti quei colpi di scena indispensabili per tenere lo spettatore incollato allo schermo. Barrett forse è ancora troppo legato solo ed esclusivamente al suo concetto di action movie, e non è assolutamente denigratorio dirlo ,anzi, è piuttosto una scelta stilistica opinabile e che forse verrà anche apprezzata. Poi se si vuole parlare delle caratteristiche esclusivamente adrenaliniche del film c’è poco da controbattere: Barrett ha nel suo curriculum un ottimo biglietto da visita. Peccato che questo non basta per far ricredere su di un’opera tutto sommato mediocre e con veramente poca profondità di stile. Barrett, come si suol dire, potrà riprovarci e magari sarà più fortunato. Con un piccolo ed indispensabile promemoria: fortuna audaces iuvat.