The Turning
Malgrado le buone premesse e una lodevole attenzione ai dettagli, l’adattamento della videomaker Flora Sigismondi non riesce a restituire lo spessore fantastico e inquietante di Henry James.
Le trasposizioni cinematografiche dei grandi classici della letteratura sono sempre scommesse difficili. Ne sa qualcosa il racconto di Henry James Il giro di vite, adattato al piccolo e al grande schermo innumerevoli volte — talvolta con successo, come nel caso dell’acclamato Suspense di Jack Clayton, più spesso con risultati mediocri. L’ultimo tentativo in termini cronologici è The Turning, lungometraggio diretto dall’esperta videomaker e fotografa Flora Sigismondi, accolto freddamente da pubblico e critica.
Del progetto si parla dal 2016, quando fu rivelato che Steven Spielberg avrebbe seguito come produttore esecutivo un adattamento del racconto di James. La sceneggiatura del film, inizialmente intitolato Haunted, fu affidata a Chad e Carey Hayes (The Conjuring 1 & 2) e la regia a Juan Carlos Fresnadillo, ma a causa di un rimaneggiamento dello script il progetto naufragò e la produzione decise di affidare la regia a Sigismondi, nota soprattutto per aver diretto video di artisti quali Marylin Manson e David Bowie, oltre che alcuni episodi di serie come American Gods e The Handmaid’s Tale. Il film è infine uscito negli USA il 24 gennaio 2020, mentre, malgrado una diffusione annunciata dalla 01 Distribution per l’11 agosto, è scomparso dalla programmazione delle sale italiane.
Lo scheletro narrativo della pellicola rimane abbastanza fedele alla trama del Giro di vite: una giovane educatrice (che nel film si chiama Kate ed è interpretata da Mackenzie Davis) accetta l’incarico di prendersi cura a tempo pieno della piccola Flora (Brooklynn Prince) in una maestosa tenuta di campagna. Il ritorno a casa del fratello maggiore Miles (interpretato da Finn Wolfhard di Stranger Things) e una serie di eventi misteriosi legati a due figure spettrali iniziano però a turbare l’ordine degli eventi. Al quadro si aggiunge il personaggio della madre della protagonista (Joely Richardson), ricoverata in un ospedale psichiatrico.
Ed è proprio sulla figura materna, sulla follia e sull’aspetto ereditario di quest’ultima che il film sembra mettere l’accento, sfiorando tematiche famigliari frequenti nel nuovo horror americano (si pensi al cinema di Ari Aster). Le figure parentali evocate nel film sono assenti o disfunzionali: Flora e Miles sono orfani, mentre la protagonista è cresciuta sola con la madre e i suoi disturbi psichici. Questo vuoto sembra essere colmato in qualche modo dalla casa stessa, sorta di madre-mostro che avvolge in una lugubre stretta i protagonisti della pellicola. I corridoi oscuri e i labirinti della tenuta di Fairchild Estate (Bly Manor nel racconto di James) sono una prigione uterina, da cui ogni fuga risulta impossibile. E, sebbene il film non sia all’altezza delle aspettative, Sigismondi si rivela molto abile nel seminare indizi servendosi della propria cultura artistica e musicale.
La cura della colonna sonora è in questo senso l’aspetto probabilmente più riuscito del film: nonostante i riferimenti a Cobain, Sigismondi ha intenzionalmente escluso dal film i classici rock/punk/grunge degli anni ‘90, puntando invece su brani originali in chiave retrò. La composizione è stata affidata a grandi nomi della scena musicale quali Courtney Love, Mitski e Kali Uchis, con l’intento, forse perturbante in senso freudiano, di mettere lo spettatore di fronte a tracce sconosciute dalle sonorità familiari. Titoli come Mother e Womb, composti rispettivamente da Love e Cherry Glazer, sembrano corroborare la lettura della “casa-madre”, ma l’indizio più rilevante è di natura pittorica: su una parete della stanza di Miles intravediamo una quadro di Egon Schiele, Die tote mutter (“La madre morta”). Il dipinto raffigura il cadavere di una donna che porta in grembo un feto dalle tinte ancora vive. Quest’ultimo sembra tentare invano di sfuggire alla cupa prigione materna, ma non può salvarsi dalla tragica fine: il destino della madre determina quello della prole. Impossibile non leggere nella scelta di quest’opera un’eco del tetro abbraccio di Fairchild Estate, da cui nessun personaggio sembra poter fuggire, e ancor di più un rimando al destino di Kate, inevitabilmente legato a quello della madre (che non a caso comunica con la figlia quasi esclusivamente tramite la pittura).
Nonostante il buon cast, le ambientazioni studiate e una certa cura dei dettagli, The Turning non riesce a coinvolgere e a riprodurre l’atmosfera fantastica e soffocante che ci si aspetterebbe. Il ricorso maldestro allo jumpscare e una sceneggiatura non all’altezza del progetto rendono il tutto piuttosto insipido. Henry James era, secondo Virginia Wolf, in grado di «farci avere ancora paura del buio»: la stessa cosa non si può certo dire per questo progetto che, probabilmente a causa dei troppi intoppi incontrati in fase di sviluppo, non entrerà nel pantheon delle trasposizioni cinematografiche più riuscite. Nemmeno l’enigmatico finale, unica vera sorpresa in una narrazione altrimenti scontata, riesce a compensare l’assenza di ritmo e di audacia, e l’impressione ultima è quella di trovarsi di fronte a un’occasione mancata, dalle buone potenzialità certo ma nel complesso piatta e incompleta.
A chi sperava in una buona rilettura contemporanea del racconto di James non rimane che incrociare le dita per The Haunting, la serie antologica di Mike Flanagan per Netflix, la cui seconda stagione, in uscita sulla piattaforma streaming il prossimo 9 ottobre, sarà dedicata ai misteri di Bly Manor.