Ghostbusters: Legacy

di Jason Reitman

Il franchise torna nella galassia Reitman e omaggia il suo glorioso passato. Ma è un falso movimento, restaurazione di un sistema infestato da spettri digitali che rifiuta di guardare al futuro. Tra tutti i ritorni a casa, questo è forse il più facile.

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“È un film di padri e di figli, di ritorni a casa”, si è scritto di Ghostbusters: Legacy. Ma di quali padri, di quali spazi a cui tornare, si parla? Che grana ha quel sentimento nostalgico che, di fatto, stimola ogni eventuale deviazione, ogni eventuale dietrofront, da un percorso diretto al futuro?
I primi a tornare nell’orbita del sistema Ghostbusters sono proprio i Reitman, meglio è Jason Reitman, figlio di quell’Ivan che, negli anni ’80, ha tenuto a battesimo il franchise. In un rispecchiamento dentro e fuori la dimensione del racconto, quello di Jason è un movimento simile a quello, tutto narrativo, che coinvolge Callie Spengler, figlia di Egon che, dopo la morte dell’acchiappafantasmi (come anche del suo interprete, Harold Ramis, in un nuovo parallelo tra vita vera e racconto), va a vivere nella diroccata casa dello scienziato, che da anni si era allontanato da New York, dagli amici, dalla famiglia, per portare a termine un’ultima caccia di vitale importanza. A ereditare le indagini saranno i figli adolescenti della donna, costretti a concludere la missione del nonno per salvare il mondo.

E tuttavia si potrebbe discutere a lungo di questo strano ritorno, delle sue implicazioni e conseguenze, a partire dal fatto che l’operazione pare essere il tentativo di restaurare un sistema che, almeno secondo l’opinione comune, dopo le divagazioni di Paul Feig aveva dimenticato lo sguardo di suo padre – ancora, per dirla con King. Il punto è che Jason Reitman pare non tenere conto degli spazi in cui si muoveva il film originale, del suo passo, delle tensioni che lo animavano. Forse Reitman capisce di essere legato al franchise più per affinità sentimentale che linguistica, ma soprattutto perché suo padre è stato uno straordinario artigiano del cinema anni ’80, privo, tuttavia, di un immaginario visivo replicabile e, soprattutto, riconoscibile.

E così Jason Reitman fa una scelta apparentemente impensabile: ammette di essere privo di un padre filmico a cui tornare e dunque vaga, senza meta, fino a ritrovarsi solo a contatto con gli echi di un cinema mai così spielberghiano. È forse la mossa centrale di Ghostbusters: Legacy. Non soltanto l’immaginario di Spielberg è la matrice ideale per le atmosfere inseguite da Jason Reitman (un altro cinema che parla di padri e della loro assenza) ma offre al regista la cornice concettuale perfetta su cui organizzare la sua restaurazione. Nei suoi momenti migliori, infatti, Legacy ragiona adottando un’affascinante “poetica degli oggetti”: in un trionfo di ripuliture, aggiustamenti, riattivazioni, riaccensioni, reset dell’attrezzatura di nonno Egon, gli oggetti iconici del franchise, veri e propri cluster nostalgici, più che rimanere simulacri inerti, vengono rivivificati e reimmessi nel flusso attraverso il loro utilizzo sulla scena. È lo stesso approccio di Ready Player One, il cui spazio viene lentamente popolato da effigia di immaginari diversi ma in libera comunicazione, dalla moto di Akira al Gundam, passando per il Gigante di Ferro di Brad Bird, tutti in costante movimento, non più semplici citazioni quanto strumenti attivi nell’azione.

Ma la straordinaria, vertiginosa, corsa della Ecto-1 all’inseguimento del primo fantasma incontrato dai ragazzi è al contempo l’apice ed il pericoloso punto di non ritorno del film. Perché dove Spielberg organizza un complesso discorso, che incrocia la nostalgia alla storia personale di ogni spettatore all’insegna di una sorta di postmodernità digitale, in cui ogni prelievo è in realtà un ipertesto verso altre galassie sentimentali e mediali, Jason Reitman si ferma un attimo prima di assecondare una propria voce attraverso cui rileggere la saga di suo padre in modo inedito e, soprattutto, personale. Reitman non ha il coraggio di guardare i suoi spettatori, il suo fandom, negli occhi, per dirgli che il tempo è passato ma che, soprattutto, il linguaggio è cambiato, perché, in fondo, farlo vorrebbe dire spostarsi nei pericolosi territori già battuti da Paul Feig. E allora quello di Legacy è un falso movimento in cui un intero sistema, una volta restaurato, viene forse perturbato da certi input, dal cast più giovane, dall’aggiunta della scheggia impazzita Paul Rudd, ma mai ribaltato, mai ripensato davvero. Meglio, piuttosto, chiudersi in un omaggio a ciò che è stato, al primo, glorioso film della saga e al cinema “per ragazzi” di quegli anni, un tributo forse affettuoso, centrato, ma anche pericolosamente ambiguo, perché maschera mancanza di coraggio e di idee ma anche perché, a tratti, appare irrimediabilmente freddo, ricreato da zero e controllato in ogni dettaglio.

Ecco dunque che il centro del film, la cittadina di Summerville, è una sorta di Luna Park nostalgico, un luogo fuori dal tempo, un’eterotopia in cui si maneggiano ancora le VHS, gli Starbucks non hanno ancora sostituito i diner e tutto pare forgiato a partire da un’estetica che corre tra Zemeckis, Donner e Hughes; ecco, soprattutto, che nell’ultimo atto, il film tenta l’impossibile e si riconnette al primo capitolo in una mossa che è al contempo apice del fanservice e rievocazione effimera di un passato che non si vuole abbandonare. E allora non solo il sistema esplode in mille pezzi ma l’intero insieme di coordinate che lo regge finisce riconfigurato in modo inatteso. Forse, in prospettiva, il Ghostbusters di Paul Feig, il figlio diseredato, pur rallentato da una regia maldestra, ragiona molto meglio sulla dimensione del franchise di quest’ultimo capitolo: perché almeno ne riattraversa gli estremi, ne ripensa le dinamiche, esplora nuove situazioni. Al contempo, il film di Jason Reitman, nel tentativo di costruire un’impossibile ucronia nostalgica che si opponga al presente, non fa altro che evocare alcune ambigue vestigia di una contemporaneità ormai irrimediabilmente mediata, filtrata, dagli spettri digitali; il deep fake, l’algoritmo, addirittura gli anonimi spazi digitali del metaverso.

E allora, forse, la vera scena madre del film non è quella citata da tutti, quella finale, ma la sequenza apparentemente minore in cui il personaggio di Paul Rudd e la giovane McKenna Grace sono su Youtube a vedere il primo spot televisivo dei Ghostbusters digitali. Ancora archivi, ancora spazi digitali, ancora un passato che si può osservare ma non si può più raggiungere davvero.

Autore: Alessio Baronci
Pubblicato il 03/12/2021
USA 2021
Regia: Jason Reitman
Durata: 125 minuti

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