Non ti presento i miei (Happiest Season)
Rilettura lesbica della classica rom-com natalizia, il film di Clea DuVall pone, volente o nolente, al grande pubblico interrogativi ancora troppo poco discussi su lesbismo, tradizione e comicità.
Distribuito dalla piattaforma di streaming Hulu a partire dal 25 novembre di quest’anno, Non ti presento i miei (Happiest Season) si presenta come la prima versione lesbica della classica commedia romantica natalizia americana rivolta al grande pubblico. La pellicola è diretta da Clea DuVall, che aveva preso parte nel 1999 a quella che è forse la capostipite delle commedie lesbiche, Gonne al bivio, e si basa su una sceneggiatura co-scritta dalla stessa DuVall con Mary Holland in cui viene messa in scena una dolorosa e personale esperienza di coming out in una famiglia conservatrice. Il coming out è, oltre la relazione romantica fra i personaggi interpretati da Kristen Stewart e Mackenzie Davis, il vero protagonista della narrazione: motore della commedia degli equivoci, innesca la doppia agnizione al centro della storia, crea tensione fra le due protagoniste e i personaggi con cui man mano interagiscono, ed è fonte del più alto momento patetico del film.
Nonostante la visione sia complessivamente piacevole, e segni un passo in avanti sull’allargamento della rappresentazione lesbica sul grande schermo, la scelta di Du Vall di ricorrere alla commedia (specie a quella estremamente canonizzata qual è la rom-com natalizia, che si vorrebbe tradizionale e leggera) non può non attirare l’attenzione su una serie di nodi che Happiest Season intreccia in modo problematico fra lesbismo, tradizione e comicità intesa come registro espressivo per le tematiche cruciali del film.
Da un lato, infatti, Happiest Season sembra intrattenere un rapporto conflittuale o perlomeno indeciso con il format che sceglie, in fin dei conti, di adottare e solo timidamente, a tratti, di ripensare, senza che la tensione fra tradizione e novità si instauri nelle modalità di un dialogo costruttivo o si risolva in una vera alternativa. Viene in mente, per contrasto, la commedia familiare di Ang Lee, Il banchetto di nozze del 1993, dai presupposti molto simili ma dallo sviluppo ben più deciso a dar vita a un dialogo intergenerazionale tra due voci ben distinte, umanizzate e relativizzate, un dialogo che si costruisce pian piano non fra bene e male o fra oppressi e oppressori ma fra due diverse prospettive e codici di valori dove ognuno perde e guadagna qualcosa dal compromesso al quale l’amore o l’affetto reciproco ci fa giungere.
Incertezze, queste, che denotano una certa mancanza di familiarità della rappresentazione del romanticismo lesbico con gli stilemi della commedia in generale, genere storicamente meno accogliente di altri a questo proposito (se si pensa al numero davvero ridotto delle commedie lesbiche non solo romantiche, ma commedie tout court) al contrario, ad esempio, del dramma, con cui si è spesso preferito raccontare le storie d’amore fra donne, o l’orrore, da sempre più vicino alla rappresentazione del rapporto fra le varie declinazioni di normalità e diversità forse anche perché più compatibile ai sentimenti di straniamento o paura con cui siamo abituati a veder espresso questo rapporto. La commedia spinge a interrogarci piuttosto sulle possibilità di una rappresentazione leggera e spensierata, e di un proiettarsi in un happy ending desiderato che allarghi l’immaginario collettivo, che introduca una prospettiva, uno spazio per teorizzare uno star (bene) insieme alternativo, in un tentativo di ripensare l’impiego militante del genere.
Dall’altro lato, la pellicola richiama l’attenzione del pubblico su alcuni interrogativi che da tempo ruotano intorno al rapporto tra minoranze (in questo caso specificatamente femminili e queer) e comicità, trovando forse il loro punto più alto di autoriflessione in Nanette, lo stand up comedy distribuito su Netflix nel 2018 di Hannah Gadsby, e che ci ricordano perché è ancora difficile (o ancora prematuro?) oggi ridere e fare commedia su tematiche di oppressione e discriminazione senza confondersi con l’oggetto della derisione, senza fare, cioè, della comicità una forma di auto-deprecazione.
Con il rischio di sovraccaricare Happiest Season di una responsabilità non per forza voluta, è importante sottolineare la necessità di film di questo tipo così come la necessità di un dibattito e di una riflessione sulle possibilità ed il ruolo della commedia lesbica in questo periodo storico, che può trovare nuove forme per ripiegare il genere alla rilettura lesbica o queer come Gonne al bivio faceva, a suo tempo, nei modi spensierati e colorati del camp del New Queer Cinema.