GOLD - looking for Oz
Le corpo-grafie di Francesca Fini alla ricerca di un grande e potente Sé
GOLD - looking for Oz è l'opera che Francesca Fini, video artista sperimentale e performer, ha scritto e diretto in Israele su invito della New Media Department of the Art School di Musrara . Un film d'arte basato su azioni simboliche ambientate nella città di Gerusalemme, interpretato dalla stessa Fini e da altri artisti locali secondo un metodo definito dalla stessa autrice "situazionismo" guerrigliero, allo scopo di coinvolgere la comunità in un gioco di ruoli, tanto provocatorio quanto poetico, rappresentativo e partecipativo, sempre volto all'interrogazione d'identità e d'appartenenza, proprio lì, nel luogo forse più conteso nel mondo e nella Storia.
L'artista ha concepito una performance site specific, ispirata alle contraddizioni di Gerusalemme, epicentro di conflitti e violenze, ancorandosi però al viaggio di Dorothy Gale nella Città di Smeraldo alla ricerca del grande e potente Oz. Una strada dorata ma ardua, che l'autrice stessa commenta così: "la mia strada è un percorso scivoloso. Non è facile per chi lavora con i simboli, affrontare un posto così leggendario. Il rischio è di cadere nella intollerabile banalità dell'arte o produrre qualcosa di debole. Dovevo mettere in evidenza le mie capacità acrobatiche e mantenere la mia storia in equilibrio tra significato e significato." In questa sfida la Fini, ormai comprovata demiurga della commistione dei linguaggi mediali, sfodera un'unica grande strategia, quella di mappare l'irrazionale immaginario di una eterogenea collettività, a partire dalla mistificazione della convenzionale geografia fisica del posto. Ancora una volta il linguaggio artistico si fa terra di transizione tra mappe immaginarie e memorie, mappe visuali e mappe polisensoriali, per cartografare la percezione autobiografica e sue rappresentazioni, così come vien generata dai corpi in movimento e dagli sguardi illogici e fluidi, che iscrivono nuove estensioni. Corpo-grafie.
La regista allestisce, pertanto, un gioco di tensione tra sospensione d'incredulità e complicità con i passanti, che questi la riconoscano o meno come "personaggio" negli abiti della famosa Dorothy Gale (con tanto di scarpe color rubino e cestino da pic- nic con cagnolino di peluche incorporato). Chiede tacitamente agli astanti di interpretare a loro volta un ruolo fiabesco, quello dell'aiutante, che possa indicare la strada, una strada qualsiasi in verità, agganciandosi all'appiglio pretestuoso di una mappa immaginaria, che ha nel letterario regno di Oz la celebre metafora di un percorso di formazione sognante, a picco nell'inconscio al valico dell'età adulta, attraverso il superamento delle paure dell'infanzia. Procede così, di confine in confine, di mappatura in nuova mappatura di convinzioni e credenze, che bussole guidano la vita intera sotto i cieli mitopoetici (che sia il cielo di carta pirandelliano, o quello solcato da misconosciute nuvole pasoliniane). In una estetica visiva soggettiva, quasi da candid camera (camera nascosta forse in un bottone o sovente piazzata a distanza ad altezza marciapiede) Dorothy-Fini esorta più che a tracciare col dito un riconoscimento sulla carta topografica, a saltare oltre quel grafico arcobaleno ( l' "over the rainbow" appunto, che torna nella colonna musicale direttamente dal capolavoro cinematografico del 39') per scavare dentro se stessi alla ricerca di quelle virtù soltanto sopite - coraggio, intelligenza, emozione - che nessun mago, a parte noi stessi, può conferire. Primo varco magico è non a caso il corpo, la prima e unica casa, la casa ancestrale, di cui aver maggior cura per sapersi sempre riconoscere. Corpo e sua materica riconfigurazione simbolica. Infatti l'altro dispositivo performativo usato, oltre l'esibizione della piantina topografica multicolore, sarà uno specchio, che sottoposto all'attenzione dei passanti servirà da piano di disegno per tratteggiare sulla propria immagine riflessa il ricordo geografico del paese d'appartenenza, Israele.
Questa l'utopia messa in scena dalla performance on the road, sublimata dagli intermezzi polisensoriali di copri danzanti o corpi effigiati e scolpiti, tutti a risemantizzare con movenze e presenze le strade, le piazze, spazi collettivi. Cosa manca a questi corpi (come quelli archetipici fantasticati di latta, di paglia?) quali mancanze denuncia questa eccentrica Dorothy? Su tutto proferisce "Non è un paese per ragazze innocenti!". Ed allora una giovane performer di bianco vestita, lontana in una dimensione interiore (dell'Io della protagonista?) si lascia imbrattare, come fosse un martirio, dalla vernice nera che esplode da palloni che essa stessa stringe violentemente al grembo. Pare quasi l'abbraccio furioso di una croce, che l'oscura alla vista culturale, la dissolve in un nero viscido, buio pesto ma tangibile. Per il resto la gente incontrata in questo peregrinare avrà poche e semplici reazioni di cortesia, se non di derisione. Negare di sapere, prima ancora di capire, oppure fornire indicazioni a casaccio pur di liberarsi di questa bizzarra figura, tanto in questa babele di pellegrinaggio un luogo vale l'altro, oppure nel crogiolo di lingue tutti cercano alla fine lo stesso monumento turistico religioso, il sentiero allora è sempre lo stesso per tutti, uno solo per mille richieste, come ad Oz. Ma la via verso se stessi (il sentiero di mattoni gialli) è estremamente scivolosa e impraticabile, percorribile solo a costo di ripetute cadute e dolori manifestamente corporali, come le ginocchiate che la stessa Dorothy-Fini si infligge, ipersensibli all'occhio che le percepisce e nevralgicamente riecheggia.
E c'è anche che il tempo per farsi male non è infinito, ma liquefatto e sfuggente, delicatissimo da scandire e trattenere, come viene mostrato in più occasioni dalle sculture di ghiaccio, clessidre di viaggio in ostensione: una chiave-ghiacciolo succhiata alternativamente da due amanti; un volto racchiuso tra i palmi delle mani che pian piano si squaglia e scarna. Il volto-maschera kitsch, artificioso, imbrattato da cosmetici, è quasi cifra stilistica della Fini, che sovente presta il proprio a questo macabro make up, ma per la sua Dorothy si limita ad indossare solo grandi occhiali da sole, a dire dei suoi occhi introversi, puntati nel Sè-Universo.