PIIGS
La video-arte di Francesca Fini sa essere anche una lezione di cortometraggio
Si è detto su queste pagine che Francesca Fini, piuttosto che una regista in senso stretto, è prima di tutto una performer. Il senso della sua opera si rintraccia infatti nelle esplosioni visive, nella commistione di linguaggi e nelle “osmosi” e “corpo-grafie” attraverso le quali inventa nuovi sincretismi e stratificazioni polisemantiche: la macchina da presa, sia essa nascosta o palesemente esibita, serve più che altro a documentare la portata delle sue intuizioni per permettere poi, in sede di montaggio, di declinare la sua arte in forma di viaggio, esperienza, racconto. È bene soffermarsi, tuttavia, su come la Fini utilizzi il cinema anche rispettandone le regole intrinseche scegliendo con cura il minutaggio della sua video-arte (il lungometraggio per Ofelia non annega, il mediometraggio per GOLD - looking for Oz e Hippopoetess) quando, per esempio, prende la via del cortometraggio. Roland Barthes definiva le forme brevi come veri e propri generi e PIIGS, resoconto non solo filmato dello spettacolo del 2013 al Nuovo Cinema Palazzo di Roma, sembra inserirsi in pieno in questo mondo a parte.
Sebbene l’opera preveda tre atti distinti, questi non seguono il criterio della narrazione quanto piuttosto quello del discorso dialettico e dell’argomentazione. Un film a tema, potremmo dire, dove il tema sono gli italiani o meglio la ricerca di uno o più caratteri antropologici che li contraddistinguano. Anche in questo caso, l’autrice si serve di citazioni illustri: dopo aver utilizzato Montale, Dante, Coleridge, Pirandello e Marinetti, stavolta si concentra sulla produzione leopardiana e in particolare sul Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'Italiani, scritto nel 1824, quando il confronto con le società tedesca, inglese e francese instillò nel genio di Recanati un’amara e ingenerosa riflessione sul nostro (mal)costume, o per meglio dire sulla totale e irrimediabile mancanza di un tratto distintivo. Ancora una volta è il corpo della Fini ad essere esibito, colorato, spogliato, percosso, sporcato per poi essere ripulito e addirittura autolesionato con una spillatrice, ironicamente tempestata di glitter verdi, bianchi e rossi.
La multimedialità tipica dell’artista si rintraccia principalmente nella prima parte, quando l’Italia costituzionalmente intesa è “scritta” attraverso lettere di pastasciutta in un tripudio di luoghi comuni gastronomici quali pomodori, peperoncini e limoni. Prima ancora, mentre prima Daniele Sirotti e poi parte del pubblico scrivono e disegnano sul corpo della Fini, una voce al rallentatore si inceppa nel recitare i primi articoli della Costituzione, che in questo modo fa fatica ad esprimersi. Il sottofondo, un carillon che esegue le note del motivo principale de Il Padrino di Francis Ford Coppola (1972), è un perturbante richiamo alla mafia.
Poi i brani di Leopardi sono effettivamente implacabili nel tratteggiare i nostri difetti: per dirla con Nietzsche nell’interpretazione di Galimberti, siamo un popolo cinico ma soprattutto nichilista perché ci manca uno scopo, non abbiamo fiducia nel prossimo e nelle istituzioni e di conseguenza viviamo in un eterno presente che svaluta i valori. Ci manca il senso dell’onore ("una società civile non può durare tra uomini continuamente occupati a deridersi in faccia gli uni e gli altri"), non conosciamo le buone maniere e, in poche parole, non ci sentiamo nemmeno una nazione. Cosa ancor più grave, oggi come allora, mancano un teatro e una letteratura nazionali (potremmo dire, anche, un cinema?) che ci rappresenti in tutte le nostre sfumature e che favorisca un dibattito culturale.
Se nel XIX secolo venivamo sbeffeggiati dalle potenze straniere, ecco che oggi i nostri vicini ci classificano come P.I.I.G.S o G.I.P.S.I, acronimi di Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna - e “maiali” o “zingari” in inglese… - per indicare quei paesi contraddistinti da “situazioni finanziarie non virtuose”. Tra un’icona religiosa e l’altra, Sirotti svela la chiave del progetto mentre la Fini, ancora per mezzo del suo corpo/Italia, cancella il titolo del corto, dipinto su un telo tra il palco e il pubblico e rivolto a quest’ultimo, sguazzando tra olio d’oliva e passata di pomodoro.
Nonostante siamo di fronte al documento audiovisivo di una performance artistica, PIIGS è un cortometraggio profondamente cinematografico perché riesce a condensare in pochi minuti una precisa idea di linguaggio, ovvero quella di un cinema evocativo (in questo caso masochismo e coazione a ripetere), post-moderno e ipertestuale che guarda a differenti scenari culturali, sociali e politici. Un cinema d’autore non come forma ridotta di qualcosa di più compiuto ma come genere che permetta attraverso pochi lampi inattesi di seminare pensieri e j’accuse, sfruttando fino allo sfinimento il corpo e lo sguardo attraverso gesti eclatanti e sovversivi e affidandosi a un montaggio che abbia ben chiaro cosa mostrare e in che modo.