Ofelia non annega
Performance e immagini d'archivio per raccontare il corpo femminile con il linguaggio ipnotico e visionario di Francesca Fini
La performance è azione, gesto simbolico, forma espressiva e comunicativa del qui e ora. Le immagini d'archivio sono invece traccia, sedimento, memoria e quindi essenzialmente passato. In Ofelia non annega la regista e performer Francesca Fini fa dialogare queste due realtà apparentemente quasi antitetiche con equilibrio e fluidità, dando luogo a un suggestivo processo di osmosi per sviluppare una riflessione coerente e suggestiva sul corpo femminile - sempre costretto, tormentato, aggredito - entro la quale la femminilità stessa finisce per configurarsi, per forza di cose, come atto di resistenza. È in questo senso che Ofelia, appunto, non annega: nel suo tentativo reiterato, ostinato e ineludibile di risorgere.
Ma più che personaggio, Ofelia è emblema, sunto, o forse semplicemente segno di uno stato di cose, di uno specifico sentire. Il linguaggio della Fini è stratificato, fantasioso e denso ma al contempo sorprendentemente limpido e conciso: come in un sogno, l'idea si fa immediatamente metafora, l'oggetto si fa immancabilmente simbolo. Ecco allora una gabbia, un occhio dolorosamente cucito con ago e filo, una serie di tentativi disperati di agire nonostante, di agire contro: mangiare un ghiacciolo indossando un burqa, truccarsi con le braccia semibloccate da elettrodi, fino a scrivere, letteralmente, con il sangue, imbevendone un lunghissimo nastro poi inserito in una macchina da scrivere. È il controcanto, quest'ultima eloquente performance, alla tragedia avvenuta nel gennaio del '51 in Via Savoia a Roma, quando settantasette ragazze in coda per un posto da dattilografa rimasero coinvolte nel rovinoso crollo di una scala.
Ma Ofelia non annega è anche visione surrealista pura, nella quale si percepiscono echi di certo cinema underground italiano e si affastellano vertiginosamente citazioni letterarie (Montale, Dante, Coleridge, Piandello, oltre – ovviamente – a Shakespeare) prima ancora che cinematografiche. C'è il futurismo di Marinetti, la poesia epistaltica di Mimmo Rotella e c'è perfino Dalì, a fare capolino, per un istante, in questo caleidoscopio audiovisivo, dove la parola (recitata dalla voce fuori campo oppure scritta disordinatamente su un volto) non è mai secondaria all'immagine. Perché lo sperimentalismo esuberante della Fini, in questo film, non si esaurisce nell'incisivo e perturbante discorso su femminilità/costrizione/violenza ma fa di questo uno spazio permeabile per altre diverse, infinite e complesse riflessioni.
Infine, se è vero che il corpo è spesso l'oggetto sacro - e al contempo sacrificato - al centro della poetica dell'autrice (tanto da divenire passaggio cruciale anche nel bellissimo Hippopoetess, dedicato alla poetessa Amy Lowell) va evidenziato come Ofelia non annega sia anche attenta mappatura di una geografia assolutamente reale che tuttavia quasi trasfigura nel fantastico: la città fantasma di Canale Monterano con le rovine della chiesa di San Bonaventura - ruderi di un sogno passato, Bernini - e poi la futuribile Villa-astronave di Perugini a Fregene - di nuovo ruderi, ma di un mondo misterioso e ancora al di là da venire.
Altro splendente e preziosissimo tassello - assieme a Hippopoetess – del progetto Fuori Norma di Adriano Aprà, Ofelia non annega è insomma un cinema oltre il cinema, vulcanico e incontenibile, multiforme e cangiante, dove si mangiano insetti, ci si ferisce, ci si dipinge addosso e si sogna, nostalgicamente, un mare irraggiungibile, mentre le parole di Montale trasfigurano in un canto arcano e segreto.