Francofonia

Nel nuovo capolavoro di Alexander Sokurov, il Louvre, arca francese presieduta dai fantasmi, è una macchina del tempo generatrice di sogni, visioni e identità.

Guardando Francofonia, ascoltandolo, cercando ogni sorta di dettaglio nella grana dell’immagine, ci si sente un po’ come degli avventurieri spauriti che tentano di mappare lo schermo, di poterne cogliere altre porte, altri ingressi, passaggi segreti in balìa di quell’oceano che è poi la Storia. Il regista è un archeologo, un vate e uno stregone, dona prescienza ed elargisce miraggi dal futuro, viaggia nel tempo attraverso tagli di montaggio e rivoluzioni cromatiche. Osserva in webcam le acque oscure che ci circondano mentre commenta, sardonico, il liquefarsi stesso della materia. Fra i pixels di un mondo virtuale, Alexander Sokurov assiste ai nubifragi del presente e del passato, guarda la Francia e pensa alla madre Russia, è al Louvre ma è già (è ancora) all’Hermitage. Fa del mondo un’immagine (fa dell’immagine un mondo) e svela oceani della memoria, acque del tempo, profondità abissali in cui ritrovare gli antichi fausti della nostra cultura. Usa queste rovine per radiografare la Storia, usa la Storia per raccontare il presente, usa il presente per dire l’uomo. Organizza dunque un regime liquido con cui scivolare di inquadratura in inquadratura e, in caduta libera, fa della Storia una lunga dissolvenza incrociata. L’immagine si blocca e ci sfugge via, sempre pronta a muoversi a velocità altre e sconosciute.

Lo Spazio è una costellazione di sguardi capaci di abolire le distanze: un corridoio dell’arte, un’antica caverna dove (già) si giravano film (tornano alla mente i pittori rupestri della Chauvet herzoghiana, che già avevano inventato la figura in movimento, che già avevano fatto cinema ancora prima del cinema). “Il tempo è un nodo” commenta Sokurov, come se ogni presente riunisse in sé passato e futuro, in un’anamnesi filosofica e cinematografica. Il Louvre non è solo l’arca francese, ma l’arca stessa dell’umanità, il corollario dei suoi desideri, la stanza dei sogni, la Zona aperta al pubblico e ai fantasmi. Ci si chiede, con un po’ di imbarazzo: dove finiscono le immagini? Che fine fanno quando cessiamo di guardarle? E i colori? Si alterano, sbiadiscono, subiscono il tempo, loro malgrado. Ancora una volta Sokurov applica perfino una durata al colore, realizzando delle immagini-movimento in cui si perdono anzitutto le coordinate cromatiche. Le tonalità cambiano senza che nemmeno ci si possa accorgere del momento in cui qualcosa è successo.

Con Francofonia Sokurov legittima una volta per tutte il cinema come macchina del tempo. Un dispositivo che proietta macchie di luce in movimento, lasciando che in un unico istante, su un piano orizzontale, si possano (con)fondere epoche differenti, si possano scavalcare i secoli permettendo incontri straordinari. Napoleone e i nazisti, l’Assiria e la Francia contemporanea. Sokurov bussa ironicamente alle porte dei suoi padri, ma Anton Cechov e Lev Tolstoj dormono in eterno. Sono ormai fotografie che russano, prive di carne e movimento, ma – e qui è il bello – non di un respiro.

Verrebbe voglia di vedere Francofonia a occhi chiusi, perché tutto il sonoro sembra lavorare a un’abissale partitura di distorsioni, che precedono e superano l’immagine. Come se ci fosse un tempo visivo, da noi percepibile ed esplorabile, e uno acustico, capace di trascinarci in altri mondi e di dar nuova vita perfino ai morti.

Il Louvre per Sokurov è il mondo (“Tutto ciò che esiste è qui”), la Storia di tutte le altre storie, lo strumento che precede e crea il Potere. Ma è anche quella dislocazione solenne di uomini e sguardi, quel nodo inestricabile di tempi e respiri spettrali. Una galleria di ectoplasmi, un corpo enorme sprofondato nel dormiveglia che racconta la Storia per poi negarla con un gesto filosofico spaventoso (“Ma forse non è mai successo. L’abbiamo sognato?). Che cos’è il Louvre? Lo chiede lui e lo chiediamo noi. Come l’Hermitage, è la casa del cinema, il momento stesso della creazione, l’atto sbalorditivo e straziante di resistenza. In fondo il film parla proprio di questo: resistere, fino all’ultima pellicola, finché lo schermo/la tela/la visione non si farà rosso, e la grana attraverserà l’immagine come un’ondata di fiocchi di neve: verso l’astrazione delle forme, verso il disperdersi della figura, verso il digitale. Resistere e creare orizzonti di senso, oceani magmatici da cui ripartire. Resistere e inventare il mondo, ogni giorno, fino all’ultimo.

Quel mondo che sembra sempre sul punto di evaporare lasciandoci in eredità “solo” lo sguardo: come se fosse il Louvre stesso a proiettare una storia di guerre e poteri. Ma proietta anche lo sguardo di quella donna del ritratto, lo sguardo che aveva squarciato la tela, lo sguardo che eravamo e siamo sempre stati noi (si potrebbe continuare fino a Wiseman e all’atto stesso di guardarci guardare della National Gallery, o forse all’Arca Russa e al tempo, tutto il tempo del mondo, riunito nell’istante di un piano sequenza che continua).

Tra gli spettri del Louvre, Sokurov si sofferma su Jacques Jaujard e sul conte Metternich. Apre uno squarcio nel tempo, catapultandoci nella Parigi aperta del 1940, durante l’occupazione nazista. Lo scopo dell’incontro tra i due uomini è quello di salvare i tesori custoditi al Louvre. Nelle stesse sale si aggira Napoleone che continua a commentare i quadri del museo che lo ritraggono. “C’est moi” dice, “C’est moi” ripete fino allo sfinimento. Ancora una volta emerge uno dei temi centrali della sua poetica: il rapporto tra arte e potere, la costituzione dell’identità di uno Stato tramite i tesori dell’infanzia nazionale. Ogni Stato ha bisogno di un museo per poter esistere, senza arte non c’è potere, senza potere non c’è Stato: immediatamente ci ritroviamo davanti alle cornici vuote dell’Hermitage durante la guerra, in preda alla minaccia più grande, quella del proprio stesso oblio. Dimenticarsi del sé, dimenticare noi stessi, dimenticare chi siamo stati e, soprattutto, chi avremmo potuto essere (perché la grandezza di Francofonia è quella di essere, come sempre in Sokurov, anche un film al condizionale).

Così finisce il ventesimo secolo, così ci ritroviamo all’improvviso nel ventunesimo, così saremo ancora e così non saremo più. I Padri si addormentano: due sedie rimangono vuote. Non resta altro che il silenzio. E la Gioconda.

“C’est moi”. Ripete Napoleone. “C’est moi”. Sembra ripetere Sokurov. “C’est moi”. Ripetiamo noi.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 04/09/2015

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