Los colonos

di Felipe Gálvez Haberle

L'esordio di Felipe Gálvez Haberle è un'allucinata opera di demistificazione, un western revisionista su un passato irrisolto e mai davvero pacificato. Su MUBI Italia.

Los colonos - recensione film galvez

Patagonia, inizi del Novecento. Tre uomini – un ex tenente inglese (Mark Stanley), un mercenario texano (Benjamin Westfall) e un giovane “mestizo” (Camilo Arancibia) – partono per rivendicare alcune terre e, insieme, aprire una tratta verso l'Atlantico per conto del capitalista José Menéndez (Alfredo Castro). Ma, con il proseguire del viaggio, diventa drammaticamente chiaro come il vero obiettivo della spedizione sia un altro.

C'è una linea invisibile che unisce Los colonos, esordio del cileno Felipe Gálvez Haberle, già vincitore del premio FIPRESCI a Cannes 2023, a un film come Re Granchio di Alessandro Rigo de Righi e Matteo Zoppis. Una sensibilità che non si esaurisce nelle location o nella fotografia, satura e contrastata, di Simone D'Arcangelo, che i due film condividono, ma che ha prima di tutto a che fare coi modi in cui il racconto, la leggenda e l'immaginario (anche di genere) dialogano col reale, col presente, con la Storia, fino a deformarla o reinventarla. È da qui, da questa dimensione oscura e altra, dove il reale si perde tra le suggestioni di un incubo allucinato, che parte Los colonos. Un contro-mito fondativo che racconta di una mistificazione per troppo tempo taciuta, dell'invenzione di una pacificazione – quella tra coloni e nativi selk’nam – di fatto mai avvenuta. Ma anche delle metamorfosi di un Potere che, pur cambiando pelle (il passaggio dal colonialismo ai regimi dittatoriali, due periodi storici con cui il cinema sudamericano si sta confrontando sempre più spesso negli ultimi anni), resta sempre lo stesso.

Prendendo la forma del classico viaggio attraverso la wilderness, coi suoi paesaggi incontaminati a dominare la scena e sovrastare i personaggi, Los colonos parte così facendo propri i codici del western per poi ribaltarli (l'opera di “civilizzazione” compiuta dai protagonisti richiama il classico scontro tra natura e cultura, pervertendolo), raccontando la nascita di una nazione edificata sul sangue, sulla pulizia etnica, sul denaro, lo stupro e il latrocinio. Un mondo dove l'uomo bianco occupa terre e disegna confini, indifferente a tutto quello che ci sta in mezzo, elevando il genocidio a naturale stato delle cose, e la prevaricazione a unico mezzo possibile al servizio del Capitale. Un sistema degenere capace, però, di sopravvivere sempre e comunque, inventandosi, all'occorrenza, una giustizia fatta a propria immagine e somiglianza, passando sopra a crimini secolari in virtù di una posticcia e artificiale unificazione.

È tra le contraddizioni di questo sistema che si insinua allora la macchina da presa di Gálvez. Mettendo al centro di quella vicenda rimossa e invisibile il dispositivo cinematografico stesso. Facendo emergere, da una parte, l'ambiguità insita nelle immagini, la capacità mistificatrice nascosta dietro l'“ufficialità” del documento storico (esemplare la scena finale, con la letterale messa in scena di una pacificazione forzata), dall'altra, la verità che vi si nasconde dietro, capace di resistere, fiera e muta, a ogni appropriazione indebita, a ogni riscrittura menzognera, a ogni mito fondato sul sangue. Ieri come oggi.

 

Autore: Mattia Caruso
Pubblicato il 18/04/2024
Argentina, Cile, Danimarca, Francia, Germania, Regno Unito, Svezia, Taiwan 2023
Durata: 97 minuti

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