How to Have Sex
Sotto la patina di classica storia di formazione, il film d'esordio di Molly Manning Walker è un racconto inquietante e doloroso sulle dinamiche sotterranee che alterano i concetti di consenso e liberazione sessuale.
How to Have Sex richiama fin dal titolo quelle commedie americane grossolane e un po’ sciocche dove l’adolescente timido e poco scafato cerca di raggiungere fra mille magre figure l’agognata perdita della verginità. In questi casi poca importanza hanno le caratterizzazioni o lo sviluppo narrativo, una sola cosa è certa: il ragazzino è straordinariamente arrapato; la voracità del suo desiderio ossessivo è un dato di fatto. Così sembra anche per Tara, Skye e Em, giovanissime ragazze appena arrivate a Creta per quella che sulla carta si presenta come la vacanza "migliore" del mondo. Unica vergine fra le tre amiche, Tara auspica di liberarsi di quella verginità che sembra limitarla sia in termini di status sociale che di spontaneo e personale desiderio di vivere qualcosa che tutti raccontano come straordinario; l’incontro con la comitiva del balcone accanto alla loro stanza, in particolare i due amici Badger e Paddy, fa ben sperare, ma le cose non andranno nel modo sognato.
È bene sottolineare anzitutto che la regista Molly Manning Walker non disprezza i propri personaggi: nel film manca uno sguardo giudicante atto a produrre la solita concezione disfattista e traumatizzata sull’odierna gioventù persa fra cellulari, balletti ammiccanti e fiumi di cocktail. C’è anzi una certa tenerissima ingenuità in questo gettarsi a perdifiato nell’alcool ingurgitato senza freni, nella musica assordante e nei vestitini sempre più corti: una promessa di felicità e di libertà offerte al costo minimo di fare esattamente quello che fanno tutti gli altri. L’analisi di Manning Walker indugia a lungo sul contesto in cui agiscono i ragazzi, lasciando che dinamiche inconsce predeterminate si svelino pian piano nell’inquadratura.
Ballare, drogarsi, ubriacarsi, fare sesso: sono i paradigmi di una vita apparentemente vissuta “al massimo” e di una gioventù ben spesa, e non si può rimproverare a degli adolescenti la mancata consapevolezza che ciò che viene raccontato loro come gratuito e spontaneo è in realtà stato predefinito dalla società come oggetto di consumo. Lo spazio in cui si muovono le tre protagoniste è un enorme parco gioco delle pulsioni, dedalo di locali, alberghi con piscine, dj set assordanti in cui alcool, corpi e musica sono a disposizione per offrire un’esperienza di vita in forma di merce da dissipare con voracità. In tutto questo il sesso è solo un altro prodotto, il che non sottintende un giudizio morale verso l'istinto sessuale in sé. Tara desidera perdere la verginità, ma non sa verbalizzare il proprio desiderio né entrare in contatto con sé stessa. D’altra parte, nessuno intorno a lei parla veramente di piacere sessuale, l’atto in sé sembra dover bastare a rispondere a ogni interrogativo. Al fondo di questa apparente giocosa socialità si muovono incerte e nascoste le vere emozioni dei personaggi, espresse in minimi atti quasi impercettibili di svelamento: frecciatine velenose da quella che dovrebbe essere la tua migliore amica, micro-reazioni di dolore e insicurezza, preziosi brevissimi atti di reale complicità con la persona che abbiamo davanti.
In questa dimensione industriale dell’esistenza si innerva facilmente la cultura dello stupro, del corpo cioè come puro oggetto di consumo defraudato di ogni valenza. L’orrore taciuto nel film è il modo legalizzato in cui la violenza sessuale continua ad agire in un’apparente contesto di reciproco consenso, facendosi forte dell’insicurezza, dell’indifferenza, della pressione sociale, di un linguaggio assente. Tara dice sì perché non sa dire no, non conosce la differenza tra ciò che vuole e ciò che le sembra di dover volere. Non ci è dato sapere se il ragazzo che abusa di lei sappia o voglia riconoscere i segnali del corpo che chiaramente indicano che la ragazza non prova desiderio. Certo è che l’alibi sociale dell’equivoco innocente – non fare niente per esprimere il proprio dissenso - basta a fugare in lui anche solo il minimo dubbio sulle proprie azioni, lasciandolo libero di muoversi nel mondo nella veste consapevole o meno di stupratore.
How to Have Sex assume progressivamente lo statuto di incubo filmico, opera sempre più claustrofobica man mano che la musica, i corpi danzanti, l’alcool, si impossessano di tutto lo spazio. La chiusura finale, con quell’ultima battuta consolatoria tra amiche, sembra rispondere più a una necessità inderogabile di speranza che a una reale fiducia nel futuro, ma certo è che ogni cambiamento, sembra dire la regista, non può partire che da questo: il balbettio impaurito di chi finalmente inizia a parlare veramente, frasi incerte e smozzicate che saranno la base per costruire di un vocabolario dello spirito più ricco ed efficace.