Fury
Ayer firma il suo film migliore, l'anabasi in una Germania ridotta in macerie tra stilizzazione, cupo realismo e influssi apertamente horror
“Quando sei ferito e abbandonato sulle pianure afghane e le donne vengono a tagliare a pezzi i tuoi resti, rotola verso il fucile, fatti saltare le cervella e raggiungi il tuo Dio come un soldato.”
Rudyard Kipling
Vestiti da soldati ma sono solo bambini, si nascondono nei cespugli ai lati della strada, lanciarazzi alla mano, pronti a uccidere e morire per difendere il proprio paese, scacciare l’invasore. Non siamo in Iraq e l’occhio della macchina da presa non è il mirino del soldato Chris Kyle di Clint Eastwood. Questa è la Germania dell’aprile del 1945, quando un Adolf Hitler ormai sconfitto costringe il proprio popolo alla guerra totale, al sacrificio ultimo e inutile sull’altare di una patria maledetta. Ad attraversare una Germania ridotta a brandelli il carro armato Sherman comandato da Wardaddy, sergente di una piccola squadra di uomini scavati e ridotti in pezzi da anni di guerra. A colmare l’orrore questo, la necessità di dover uccidere soldati improvvisati e bambini per raggiungere Berlino. Una guerra che sembrava giusta perde così ogni connotazione eroica. Sono personaggi in cerca di eroismo e riscatto i protagonisti di Fury, soldati distrutti dal conflitto e alle prese con una beffa finale che rende impossibile ogni connotazione valoriale. Non a caso a dare un senso ultimo alle loro azioni sarà un inutile crocicchio da difendere e un plotone di SS, ultimo nemico degno di questo nome.
Al quinto film da regista David Ayer si distacca di netto dalle sue atmosfere poliziesche e noir, prendendo di petto il genere bellico con una potenza e un rigore neoclassico che pochi registi di genere saprebbero oggi impiegare. Il risultato è probabilmente il suo film migliore, un’epopea eroica di grande impatto visivo e poca retorica, un racconto di guerra ai confini con l’horror e ossessionato dal rapporto tra macchina e corpo. Come in un Crash rinchiuso dentro un carro armato, la guerra per Ayer è anzitutto la frantumazione e il logorio del corpo (la schiena piagata di Brad Pitt, i brandelli di faccia soli resti del vecchio mitragliere), il legame meccanico, ossessivo e simbiotico tra la bestia di metallo e gli uomini nascosti dentro la sua pancia. Fury è chiaramente figlio di Belva di guerra, fenomenale e allucinato racconto bellico di Kevin Reynolds, in cui un manipolo di soldati addetti ad un carro armato si scannano tra loro tra le sabbie dell’Afghanistan sovietico. Tuttavia dove Reynods è interessato a condannare con una ferocia asciutta e antispettacolare gli orrori della macchina bellica, Ayer ne fa anzitutto una questione di stile. Il suo Fury offre soluzioni belliche notevolissime, rincorrendo un punto di incontro tra stilizzazione e cupo realismo, un equilibrio stigmatizzato a perfezione dalla figura di Brad Pitt, non a caso oggi il più grande attore neoclassico della sua generazione.
Ricorrendo al topos della nuova recluta aggiunta alla squadra (il Norman “Machine di Logan Lerman), Ayer introduce la sua anabasi anzitutto come iniziazione alla violenza, perché –come dice il sergente Wardaddy –se le idee sono pacifiche la storia è fatta di violenza. Posizione estrema e ambigua, specie considerata l’esecuzione cui Wardaddy costringe Norman, ma che comunque nasce dalla necessità di dare un senso alla violenza stessa. Ciò che più annichilisce tutti i personaggi della squadra è l’assenza di scopo, per questo la sterzata eroistica della seconda parte del film non va presa come un passo indietro e contradditorio rispetto a quanto visto in precedenza, bensì una compensazione ideale per una necessità quasi mitica. Certo, Ayer non ha la capacità di John Milius di riflettere sull’atroce necessità storica della violenza e del destino americano, e per questo il suo Fury resta un’opera approssimata da questo punto di vista, affettata nelle posizioni e affrettata verso la soluzione facile scelta per il finale. Tuttavia, oltre la notevole perizia registica, lo sguardo rigoroso di un genere anacronistico (almeno in questa accezione) riportato alla vita con grande potenza, Fury regala anche momenti sinceramente dolenti. Come la recita familiare inscenata da Wardaddy e Norman a casa delle donne tedesche, un ritratto domestico ritagliato nell’orrore della guerra e infranto dall’arrivo dei freaks, dei compagni di squadra amati e rigettati al tempo stesso. Wardaddy si impegna a sverginare Norman (dal punto di vista fisico e morale) ma quello a cui guarda e che gli invidia è in realtà la purezza del suo sguardo incontaminato dalla guerra, l’unico a poter e dover sopravvivere all’orrore. Per i freaks ormai c’è poca speranza.