Giovani si diventa
Noah Baumbach filma quello che è con ogni probabilità il suo miglior film, un incontro-scontro di coppia che demistifica tanto le vecchie quanto le nuove generazioni, con cattiveria e brillantezza.
Josh (Ben Stiller) è un documentarista in pieno stallo creativo, che sta lavorando da quasi un decennio (!) al montaggio dello stesso documentario. Anche la vita quotidiana con la compagna Cornelia (Naomi Watts) non va per il meglio. L’entusiasmo del passato o anche solo di qualche anno prima è ormai morto e sepolto, i figli non arrivano, anche se i due si trincerano dietro la volontà di non averne per nascondere la polvere sotto il tappeto, e la frustrazione di entrambi è ai massimi storici. Quando Josh, che tiene anche dei corsi universitari sul cinema, conosce fortuitamente una coppia di giovani hipster, Jamie e Darby (Adam Driver e Amanda Seyfried), iperattivi e volitivi, affiatati e rampanti, che fanno mille cose con addosso quella freschezza che lui sembra aver completamente messo da parte sia sul lavoro che negli affetti, in Josh qualcosa si risveglia, tanto da fargli sperare che l’amicizia con quei due ragazzi riaccenda in lui il fuoco sacro. Giovani si diventa, inspiegabile traduzione del più emblematico While We’re Young (“Finché siamo giovani”, appunto), è la conferma lampante dello stato di grazia di Noah Baumbach, reduce dal meraviglioso ritratto femminile di Frances Ha, film divenuto inevitabilmente decisivo per focalizzare paure, aspettative, sogni e goffaggini della gioventù contemporanea non solo americana. Nel nuovo film di Baumbach non c’è però traccia dei barlumi di leziosità di quel b/n e dell’ovatta in fondo nostalgica del suo film precedente, che lascia il posto a un incontro-scontro di due coppie, una di mezza età e l’altra poco più che ventenne, più concreta che pensosa: un dispositivo perfetto per smascherare, il più delle volte con asprezza, le ambizioni di una generazione di quarantenni che a forza di cercare il riconoscimento di sé attraverso l’affermazione personale ha finito col perdere di vista i propri obiettivi, smarrendo se stessa e la capacità di mettere a fuoco il perché dei propri sogni e delle proprie scelte (“La nostra generazione pensa solo al successo, mai alla strada per arrivarci”).
È un mondo drogato dalla commistione di finzione e realtà, quello che Baumbach ci restituisce con una profondità, un acume e uno splendore dialettico mai toccati prima - non con questa forza, in ogni caso - nel resto della sua carriera. Sia che si propenda per un’ecologia dello sguardo vecchio stampo, ostile ai mascheramenti disonesti e alle soluzioni ad effetto (la posizione del personaggio di Ben Stiller), sia che ci si dedichi allo sfruttamento selvaggio di tutto ciò che le nuove tecnologie consentono di plasmare in termini di appropriazione e condivisione (così si muove il Jamie di Adam Driver), si impatta comunque nelle contraddizioni di un presente in cui nessuno può davvero salvarsi o quanto meno dirsi esente da accuse e colpe di vario genere, che al tempo del super realismo e di un mondo iperconnesso non possono che essere anch’esse condivise, da spartire un po’ tra tutti, impossibili da smistare dividendo con nettezza e inattaccabile sicurezza il giusto dallo sbagliato, il vero dal falso, la verifica delle fonti dalla loro manipolazione e torsione per scopi spettacolari, al cinema come nella cronaca, nei documentari più o meno pretenziosi come nello sterminata terra di nessuno rappresentata da Youtube. Non a caso, il personaggio di Driver non ha confini morali, non risponde alle critiche e alle ingiunzioni, è un occhio imperturbabile, sempre vigile, sempre spalancato: continua a filmare tutto, i litigi e la gente che sbrocca, i pianti trattenuti e i dettagli più irrilevanti, quasi come se stesse sempre e comunque a girare il suo personalissimo I-Movie (dove la lettera iniziale della parola è da gonfiare a dismisura, a riprova di un culto dell’ego fuori controllo esasperato dall’utilizzo compulsivo dei new media). I suoi modi, poi, sono studiati, costruiti, affettati. Artificiali, dalla testa ai piedi. Jamie, in fondo, vuole essere incolmabile, come dice lui stesso in modo più pomposo che poetico, attraversare le cose senza farsi da esse riempire. Il film che sta facendo lo porta avanti con una marcata spinta individualistica ma non vede l’ora di condividerlo, è innamorato solo di se stesso ma gira per gli altri. Paradossalmente Josh, invece, che pure si fa carico di ingombranti intenti d’analisi e di utilità sociale e di letture stratificate sul tardo capitalismo, il suo film sembra volerlo tenere solo per se stesso, come gli dice il suocero interpretato dal grande Charles Grodin, anche lui documentarista ma con trascorsi ben più gloriosi, un mostro sacro che Josh vede più come un ostacolo da superare per non sentirsi costantemente inferiore che come un aiuto cui appigliarsi.
È un film con un precisa collocazione geografica, Giovani si diventa, ovviamente siamo a New York e ancor più prevedibilmente nei pressi di Brooklyn, ma dalle aspirazioni ben più estese: se bollarle come universali sarebbe senza dubbio ridondante e stucchevole, si può però dire senza timor d’iperbole che quello di Baumbach è un film che si autoproclama manifesto dell’era digitale, della sua inadeguatezza e dei suoi bluff diffusi, più che delle risorse potenzialmente infinite di cui essa dà l’idea di poter disporre. Strumenti che restano sullo sfondo e che servono al regista più per ammiccare e prendere in giro le senilità incombente della propria generazione e il ridicolo arrivismo dei più giovani che per altro. Al di là dell’ovvio e strumentale conflitto tra la carnalità delle passioni delle nuove generazioni, che costruiscono da soli qualsiasi cosa e collezionano vinili e VHS, contrapposta alla schiavitù dei più “anziani” verso i nuovi mezzi, dagli I-Phone a Netflix, perché è naturale che la propria collocazione anagrafica sia inversamente proporzionale all’età dei mezzi che si utilizzano, Giovani si diventa parla più da vicino e più in profondità di cosa voglia dire essere frustrati e invisibili ma integri, piuttosto che soddisfatti e sovraesposti perché senza scrupoli. Una sorta di compendio etico dell’oggi, dunque, ma senza pedanteria, con dalla sua il balsamo di una corrosività sprezzante e spesso divertita, che lascia che l’amarezza venga fuori con tutta la naturalezza del mondo e senza mai ricorrere a forzature, trucchetti o rinegoziazioni di senso a buon mercato. Più dalla parte di Josh, dunque, ma non sempre. Perché nel logorroico quartetto d’ispirazione alleniana di Baumbach non si salva davvero nessuno, e c’è posto per l’empatia con la propria generazione solo fino a un certo punto.
“Ci siamo spesso chiesti come saremo da vecchi. E la risposta è: come tutti gli altri”: questa frase, pronunciata dal personaggio di Amanda Seyfried, che di fatto dà il la al movimentato caleidoscopio del finale che rivelerà menzogne e fragilità dell’una e dell’altra parte in causa, è decisamente significativa e appare pienamente in linea con la ricomposizione delle ostilità cui le ultime scene vanno incontro. Non per la volontà di una riconciliazione forzata da commedia romantica, ma perché, sembra volerci dire Baumbach, di fronte a un’attualità sempre più insondabile e dolorosa la mediazione e il compromesso coincidono con la scelta allo stesso tempo più facile e con quella più difficile. Far coesistere, cioè, il fallimento dei propri sogni di gioventù e l’accettazione di un grigiore probabilmente anche un po’ ipocrita e di comodo: un connubio sulla carta letale che non può che aprirsi all’arrivo di nuove vite, per necessità più che per desiderio. Per confidare in una nuova speranza, o semplicemente per continuare a vivere e ad esistere oltre se stessi. E per vedere, negli occhi dei propri figli, ciò che non si può scorgere in nessun modo negli occhi dei figli degli altri: un vago pallore di ciò che si è stati e la promessa di ciò che qualcun altro potrebbe diventare al posto tuo. La vita, dopotutto, “è ciò che accade mentre fai altri progetti”. E non è poi sempre vero che "più vuoi più hai". O almeno, non per tutti.