The Meyerowitz Stories (New and Selected)
Noah Baumbach torna a parlare di rapporti conflittuali fra padre e figli in una pellicola che si direbbe quasi il seguito più adulto ed ironico del suo ''Il Calamaro e la balena''
Se le ambientazioni nella New York degli artisti e degli intellettuali di origine ebraica (e l’immancabile confronto con la soleggiata Los Angeles) potrebbero rimandare ai più classici lavori di Woody Allen, è senza dubbio al Wes Anderson de I Tenenbaum che The Meyerowitz Stories (New and Selected) fa eco nel proporsi quasi come una rilettura. Anche in questo caso, infatti, la macchina da presa segue le vicende di un nucleo familiare riunitosi intorno al padre (là Gene Hackman, qui Dustin Hoffman, entrambi meravigliosi) in fin di vita, pretesto per rimescolare le dinamiche interne e riflettere sulle loro contraddizioni.
La scelta della divisione in capitoli e i tratti di comicità espressamente più costruita ne fanno, forse, il film dove Noah Baumbach più si diverte e si concede a momenti distesi, forte anche dei contributi di Adam Sandler e Ben Stiller che alternano con disinvoltura toni da commedia ad altri più drammatici, dimostrando di aver fatto tesoro delle loro esperienze, rispettivamente in Ubriaco d’amore e Lo stravagante mondo di Greenberg, con personaggi problematici e stratificati, a disagio con il mondo che li circonda. Tutto questo avviene, tuttavia, senza che il regista rinunci ai temi che gli sono cari e all’incedere estremamente intimista e dialogato di una certa deriva del cinema indie, il mumblecore. Quel che è certo, infatti, è che il cinema baumbachiano è un cinema fatto di rapporti, di dettagli, di umanità che ripropone, quasi ossessivamente, il discorso intergenerazionale che gli sta a cuore. Il ritratto si estende dal nonno alla nipote, dall’opera di un’artista compiuto alla voce freschissima ed acerba di Eliza, facendo l’occhiolino anche al precedente Giovani si diventa, dove l’accento veniva posto sulle diverse modalità con cui le due generazioni si rapportano alla creazione artistica, al loro pubblico e alla fama.
Dopo due film, Frances Ha e Mistress America, costruiti attorno a personaggi femminili, Baumbach dirige una pellicola quasi esclusivamente maschile: la figura della madre viene vanificata e frantumata in Maureen e nelle tre ex mogli di Harold, in modo che il racconto si concentri essenzialmente sui rapporti tra due fratelli e il padre richiamando una delle sue prime e più riuscite opere, Il calamaro e la balena, quasi a volerne proporre una continuazione. Se il primo riprende i conflitti fra padre e figli adolescenti nel pieno del loro delicato momento germinale, le Storie dei Meyerowitz sono più che altro narrazioni che guardano al passato o che tutt’al più ragionano nei termini dolce-amari del periodo ipotetico dell’impossibilità: i protagonisti sono ritratti nel passaggio dal continuo sottintendere e rinfacciarsi il come sarebbe potuto essere all’atto di fare i conti, finalmente, con il com’è stato, in un quadro che non si stanca di riflettere su come l’agire dei genitori si rifletta inevitabilmente sui figli.
The Meyerowitz Stories (New and Selected) sembra regalare un lieto fine – segno, probabilmente, di un approccio più adulto ed ironico al trauma adolescenziale “espiato” dal continuo gesto creativo del regista – in cui l’esperienza della (quasi) perdita del padre serve, più che a migliorare il rapporto col genitore, a metabolizzare l’impatto che la sua figura ha avuto sulle vite dei fratelli, fino alla fase dell’accettazione simboleggiata da quel sussurrato «I love you. I forgive you. Forgive me. Thank you. Goodbye» di Danny.
Più indecifrabili, invece, le intenzioni con il personaggio della sorella Jean (Elizabeth Marvel) che, come indicato nel titolo del capitolo a lei dedicato, viene letteralmente messa fra parentesi rimanendo in disparte (se non per il brevissimo momento della rivelazione della violenza subita da parte dell’amico del padre) durante l’intero corso della pellicola e quasi dimenticata, anche dallo spettatore, all’epilogo. Se da un lato un tale trattamento riesce a rendere in modo ancora più efficace la marginalità della sua condizione ricalcandola sul piano dell’economia del racconto e colora, certo, di toni ancora più ironici la pellicola, dall’atro lato rischia di farne un personaggio puramente decorativo, quasi superfluo alla narrazione se non come puro esercizio di stile.