Go With Me

Lo sciatto e svogliato film di Alfredson è un esempio lampante di come non basti un buon cast e un ottimo soggetto per fare cinema di genere che abbia un valore. Serve stile.

La verità è che per fare un buon cinema di serie b possono esserci le facce giuste, i luoghi, il soggetto promettente, ma se non c’è stile non si va da nessuna parte. E questo non significa certo avere mano pesante, sguardo ricercato, tecnica sopraffina; niente gioco all’autore, avere stile significa semplicemente conoscere come il cinema gira, nei suoi meccanismi innati e sotterranei, e saper lavorare con questi dentro il cuore del genere. Per certi versi nessuno capisce come funziona il cinema meglio di un grande regista di b-movie.

Già autore dei primi due capitoli del Millennium svedese, Daniel Alfredson è tutto fuorché un regista dotato di stile, e Go With Me ne è una triste conferma, oltre che occasione sprecata considerata la semplice efficacia del soggetto di partenza, il breve romanzo di Castle Freeman Jr. che con pochi elementi ben piazzati lavora sull’incontro tra generi in una spirale di violenza crescente. Finito nelle mani di Alfredson, questo racconto diventa invece un film di un anonimato sconfortante, senza nessun guizzo, intuizione, personalità.

L’idea di partenza sembra rubata alla penna di Joe R. Lansdale: in una cittadina di confine, di quelle in cui la legge non si vede e il bello e il cattivo tempo lo decidono i criminali più temuti, il boss della zona inizia a perseguitare una giovane donna tornata da poco in città. Inutile rivolgersi allo sceriffo, ad aiutarla saranno un padre dal passato burrascoso e il suo protégé, terzetto improbabile che per certi versi ricalca quello di Cold in July di recente portato sullo schermo da Jim Mickle. Ma Alfredson non è Mickle, o Fuqua o Ayer, e di una crociata western tra revenge movie e giustizia solitaria non sa davvero che farsene.

Il risultato è un film privo di sostanza, portato avanti senza idee, senza voglia, senza alcuna consapevolezza dei riferimenti con cui si sta giocando. Go With Me è sbagliato dall’inizio alla fine, si accontenta di essere un brutto thriller da seconda serata quando poteva essere di più, cerca di imbastire un racconto di tensione ma riesce soltanto ad arrancare senza fiato. Al suo interno potevano prendere vita personaggi sì tagliati con l’accetta ma giusti, robusti, e invece siamo nella fiera della macchietta svogliata, a partire dal famigerato Blackway, teoricamente uomo nero dall’influenza onnisciente ma nei fatti villain senza spessore cui non può bastare il gigioneggiare di un redivivo Ray Liotta.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 11/09/2015

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