“Siamo in una fase di transizione, come sempre del resto”. Flaiano docet. Fra le tante in atto vi è quella legata ai sistemi di consumo, sfruttamento e utilizzo delle fonti e delle materie prime, che si riallaccia a sua volta al tentativo di instaurare nuovi modelli di sfruttamento del territorio e del terreno, in particolar modo di come esso debba fungere da donatore di nutrimento piuttosto che lenzuolo sul quale edificare strade, abitazioni o industrie. È, per ricorrere a dei termini noti ai più, il teorema che abbraccia dentro sé l’altromondismo, il no-global e la decrescita sostenibile, paradigmi che da più di dieci anni ci dicono che un altro mondo è possibile. Esiste un’altra maniera di intendere l’impatto umano sulla terra necessario per la nostra stessa sopravvivenza, lontano dall’iper-sfruttamento capitalista e che renda giustizia ai territori e alle popolazioni che li abitano, specialmente quelli meno fortunati per ragioni economiche, climatiche e geografiche. Un teorema, quello del green value e della sostenibilità, oggi più che mai urgente, dopo aver perso quell’importante treno presentatosi al G8 di Genova del 2001 ma che i potenti di tutto il mondo decisero di non prendere, decretando un altro decennio di sfruttamento economico delle risorse insostenibile che c’ha portati alla crisi sistemica attuale.
La produzione dal basso God Save the Green afferisce alla schiera nobile dell’altromondismo e della sostenibilità verde. Michele Mellara e Alessandro Rossi firmano a quattro mani questa interessante e internazionale ricognizione sullo stato di salute dell’economia verde, sulle nuove frontiere pratiche di simili paradigmi e sui modelli politici e attuativi di riferimento di chi abbraccia la causa green. Nel prodursi in questa fatica documentarista i registi svolgono il loro compito in maniera perfetta, quasi invisibile, restituendo allo spettatore un’ora abbondante di “verità verde”, dove il fruitore di God Save the Green può constatare con piglio analitico e didattico lo stato di salute e di validità di alcune pratiche proprie di chi crede in altri metodi di sfruttamento e vivibilità.
Ma se a livello tecnico il documentario è – a suo modo – inattaccabile, molto altro c’è invece da dire sull’ideologia che muove il tutto. Sottolineando nuovamente la nobiltà delle pratiche altromondiste, vi è però uno scarto semantico e pratico fondamentale nel documentario, verso il quale i registi sembrano glissare in maniera acritica. Ci riferiamo alle pratiche e ai modelli di sfruttamento possibili immortalati in esso. Mellara e Rossi offrono degli spaccati di vita di singoli individui o piccole comunità che hanno trovato il loro modo di rendere sostenibili le proprie necessità. Tuttavia queste pratiche, assai etiche, vorrebbero avere il passo del modello paradigmatico quando invece non lo possiedono. Si aprirebbe – ma non è questa la sede più opportuna – l’annosa diatriba fra la sostenibilità e la messa in pratica di simili atti, che ad oggi si scontra con la fattibilità, la replicabilità e la funzionalità del tutto. Detto in soldoni: avere un orto domestico è cosa assai sana, giusta e con risvolti politici non di second’ordine. Tuttavia questa prassi non è attuabile a tutte le latitudini, per tutte le esigenze di spazio e di tempo della popolazione. Se non ci si smarca da questa impasse il modello ecosostenibile è destinato a fallire, con gravi ripercussioni per tutti noi.
Il crinale sul quale ancora oggi poggia l’altromondismo e la sostenibilità ancora non riesce a risolvere la sua grande sfida, ovvero rendere praticabile per tutti i modelli che propone. Senza questo la sostenibilità – e chi le va appresso in queste forme, come God Save the Green – rimane solo un modello naïf, utopico e piuttosto borghese di declinare un’esigenza che invece è trasversale nel mondo, per latitudini e ceti sociali.