Wish I Was Here
Un'opera in delicato equilibrio tra riso e pianto, purtroppo sovraccarica e confusa nei contenuti
Chi non vuole bene a Zach Braff? Il regista e attore, noto principalmente per il ruolo di J.D. nella celebre serie televisiva Scrubs - Medici ai primi ferri, ha conquistato il pubblico grazie ad un volto incredibilmente espressivo e malleabile, da sempre suo tratto distintivo. Dopo che il 2004 aveva segnato il suo esordio alla regia con la commedia indipendente La mia vita a Garden State, la sua produzione sembrava essersi interrotta nonostante il film, interpretato da Natalie Portman, avesse goduto di un’importante diffusione a livello internazionale. Con Wish I Was Here Braff firma il suo secondo lungometraggio, opera che non convince appieno ma che conferma un talento e un’idea di cinema che ci piacerebbe rivedere tra meno di dieci anni. Malgrado le difficoltà produttive, il film è stato realizzato grazie al sostegno diretto dei fan: parte del finanziamento ha infatti origine da una campagna lanciata sul famoso sito di crowdfunding Kickstarter.
Aidan, attore trentacinquenne disoccupato ed eterno sognatore, è sposato con Sarah (Kate Hudson, in una delle sue interpretazioni più convincenti dopo Quasi famosi) con cui ha due figli. In seria difficoltà economica, il protagonista si affida al padre, Gabe (Mandy Patinkin) per sostenere le spese che più gravano sul bilancio familiare, tra cui la retta della scuola ebraica frequentata dai bambini. Nel prologo del film Gabe annuncia ad Aidan di essere in fin di vita e di voler investire i suoi ultimi risparmi in una cura sperimentale. Il protagonista si trova così a dover affrontare non solo la malattia del genitore, che ben presto si aggraverà, ma sarà anche costretto a tenere i figli in casa. Fondamentali nello svolgimento delle vicende narrate, i due bambini si trasformeranno in indispensabili aiutanti, specchio candido e fedele di emozioni represse e complicate e di una condizione esistenziale irrisolta, della necessità di crescere per tenersi in equilibrio malgrado le difficoltà di una vita sprovvista di rete di protezione.
Il film danza su diversi piani cagionando sorrisi e lacrime, scrutando con acuta leggerezza le vicende di una famiglia costretta a fare i conti con il suo groviglio di dinamiche interpersonali. Così, lo squilibrio rappresentato dalla tragedia della malattia sviscera argomenti irrisolti, fa emergere antichi rancori e debolezze, scioglie nodi e tesse nuove trame. Riuscendo, in ultimo, a restituire vita a degli individui impaludati nei loro sogni d’infanzia. Aidan e il fratello Joey, infatti, cresciuti con il peso di troppe aspettative, sembrano aver voluto sospendere la loro maturazione. Intrappolati in un’esistenza che si configura come una sosta; la vana attesa di un’occasione che permetta loro di fare qualcosa di grandioso. Proiettati ciecamente verso l’olimpo della genialità sembrano aver dimenticato l’attimo, il rapporto con il reale, il qui e ora delle emozioni, la presenza evocata nel titolo, wish I was here. Il vero coraggio, ci dice Zach Braff, non sta nell’immaginare mondi fantastici o nell’ostinata attesa di un sempre più vano successo. Risiede, piuttosto, nell’essere presenti. Nella capacità di vivere la vita quando questa si manifesta per assaporarne e condividere ogni momento senza lasciarla scorrere via passivamente.
Nonostante Wish I Was Here si configuri in ultimo come un’opera dalla struttura incerta e dagli stridenti e farraginosi meccanismi narrativi, è grazie a una spiccata sincerità che Zach Braff riesce comunque ad appassionare. Riproponendo temi quali il rapporto con la religione ebraica e il lutto legato alla perdita di un genitore, il regista ribadisce il nucleo della sua poetica e traccia i contorni di una visione che, alla luce di questa seconda pellicola, lo contraddistingue.