The Golden Era
Il film di chiusura di Venezia 71 è un interminabile melodramma storico che non va segno
E’ davvero un dispiacere non da poco chiudere la Mostra del Cinema di Venezia con un film della gloriosa regista hongkonghese Ann Hui e ritrovare una cineasta così appannata e sottotono, anni luce distante dalla commozione e dai brividi che aveva regalato al Lido nel 2011 con il suo precedente A Simple Life. L’arte complessa e raffinata della Hui a questo giro pare infatti aver imboccato una parabola inversa a quella della carriera della regista, quasi come se il background televisivo che fa parte della sua formazione, sulla carta da anni superato per approdare al cinema, fosse tornato a bussare alla sua porta e a farsi sentire ad anni di distanza. Ecco allora che si materializza davanti ai nostri occhi increduli un discorso sul cinema, più storico che melodrammatico, immobilizzato e cristallizzato su forme vecchie e passatiste, su una classicità che dovrebbe essere rigogliosa – così era lecito aspettarsela – e che invece si è tramutata in una pigra stabilizzazione su dei canoni di messa in scena piuttosto accomodanti e prevedibili.
The Golden Era è chiaramente un’epopea, ma dell’epica su grande schermo ha solo la durata, non certo il respiro e la portata. Il minutaggio spropositato, per altro, contribuisce a illanguidire fuori misura un’opera già di suo troppo rintanata nella propria sterile prolissità, perfino indecisa su quali e quante incursioni nel mélo centellinare. A conti fatti non sono moltissime, perché a prevalere sono aspetti più analitici e meno passionali, il che va a tutto svantaggio dell’afflato del cinema di Ann Hui, che ne viene fuori se non negato del tutto comunque considerevolmente ridimensionato. Il film è ambientato negli anni ’30 e la vicenda è quella della scrittrice cinese Xiao Hong, morta prematuramente a poco più di trent’anni ma non prima di aver dato un apporto che non verrà dimenticato alla storia letteraria e culturale del suo paese. L’intera ricostruzione del contesto storico, così come il racconto della profonda infelicità della scrittrice, non colpisce a segno, forse proprio perché si respira una costante scollatura tra la dimensione pubblica e quella privata e ogni approfondimento tentato dalla regista somiglia più a un’enumerazione fine a se stessa che a una digressione notevole e legittimata.
Le ragioni di interesse di The Golden Era potranno anche essere storicistiche, magari per cultori del dettaglio e delle minuzie della storia orientale, ma sono assai poco storico-cinematografiche, perché nel film della Hui, a livello formale, il cinema non è mai fatto dialogare con la storia e viceversa, né sul territorio dell’analisi né su quello della rievocazione. Mentre si guarda a The Golden Era si ha come la sensazione di assistere allo storyboard prossimo alla fissità, e reso dinamico a forza, del film che sarebbe dovuto essere: una pedante materializzazione di un universo che la regista si è limitata a mettere in posa ma non a ravvivare per davvero attraverso uno sguardo che gli infondesse cuore, passione e un coinvolgimento ragguardevole anche per chi sta dall’altra parte dello schermo. Di tanto in tanto affiora qualche scena che preme più sull’acceleratore rispetto al resto, ma l’effetto è controproducente: sono frammenti isolati sottolineati in maniera fin troppo palese, come a presegnalare una scena madre con evidente anticipo. Non pervenuto e totalmente vano e autoreferenziale, infine, l’elemento sperimentale che fa breccia in così tanta convenzionalità esibita: i personaggi stessi che, intervistati in prima persona, guardano fisso in camera e diventano narratori attivi, pressoché onniscienti e direttamente coinvolti delle vicende in esame. Una trovata che non indaga in alcun modo le potenzialità di una frattura tra fiction e documentario ma si limita esclusivamente ad amplificare ancor di più la distanza di uno spettatore già di suo parecchio alienato e lontano dal cuore pulsante della narrazione per tutte le tre interminabili tre ore.