Il padre
Il regista turco Fatih Akin è animato dalle migliori intenzioni ma gira un polpettone d'impianto televisivo, con qualche punta di retorica e poca sostanza. Non brutto, ma del tutto inutile
Sull’urgenza e la necessità di certo cinema storico ci sarebbe molto da sindacare e da discutere. A cominciare dal flusso positivo che genera, a prescindere da tutto, un tema importante intorno al film che sceglie di portarlo sullo schermo. Se poi si tratta di un episodio vergognosamente dimenticato della storia novecentesca come il genocidio armeno, va da sé, il meccanismo risulta moltiplicato se possibile per mille. Non è un caso dunque se intorno a Il padre, il nuovo film di Fatih Akin, si respirava già da tempo un’energia favorevole, una specie di speranza incanalata nella giusta direzione e con dalla sua le migliori premesse possibili. Il risultato però dimostra come l’eccessivo peso dato alla rilevanza morale di un tragico evento del passato risulti molto spesso un’arma a doppio taglio sotto il profilo strettamente cinematografico, foriera di delusioni e ridimensionamenti successivi inevitabili: nonostante la lodevole volontà di raccontare uno sterminio che riguarda (e macchia) il suo popolo da vicino, il regista turco dimostra palesemente di non avere le spalle robuste a sufficienza per affrontare un racconto del genere, che dovrebbe essere sospeso tra la crudezza del dramma e l’epica della commozione, tra la narrazione di una storia personale e i lividi della Storia collettiva.
Il padre invece non è niente di tutto questo, solo un polpettone telefonato e risaputo, con una regia pigra che pur tentandoci in tutti i modi non riesce proprio ad allontanare il sentore di una fiction bolsa e diluita, piena di momenti deboli e di stucchevoli passaggi a vuoto che stornano nettamente lo spessore del cinema autentico, quello che in questi casi non si può non pretendere più radicale, più sanguigno, più vigoroso (la colonna sonora rock, da sempre cara ad Akin, stavolta è fine a se stessa). Non c’è ricerca, in Il padre, solo l’illustrativa vena bidimensionale di chi si sente chiaramente non all’altezza di ciò che sta narrando e per sicurezza preferisce maneggiarlo nella maniera più tranquilla e remissiva possibile. Nelle intenzioni dell’autore, la sua opera doveva addirittura essere un western, col protagonista, Nazareth, che si mette in viaggio alla ricerca delle figlie e arriva fino negli Stati Uniti, muto per una parte non indifferente del film e interpretato da un Tahar Rahim che a questo giro non sembra neanche il fenomeno intravisto in altre occasioni. Del western però manca il conflitto con l’ambiente e il paesaggio, la dialettica, la controversia: il sangue che scorre in Il padre è solo quello di uno sceneggiato televisivo inutile e plastificato, che non fa male, di cui non ci vergogniamo e che mai ci sogneremmo di sentire come nostro. Perché il regista, nonostante le buone intenzioni, quel salto verso lo spessore non lo fa mai e rimane impantanato nella fanghiglia dei suoi limiti, nell’approssimazione storica del bignamino, nella cronaca semplificata di orrori giganteschi.
La lunga lavorazione cui il film è stato sottoposto accentua ancora di più l’irritazione per un’operazione malamente sprecata, che non problematizza la sua storia, non riflette sulla paura della negazionismo, sul potere allarmante del rifiuto e della riscrittura, sulla Storia come strumento di controllo e di sapere. Di sicuro non è un film da irridare o verso il quale far montare la propria collera, Il padre, perché tutto sommato almeno nelle intenzioni preserva la sua fiacca onestà. Ma è anche l’esempio più esaustivo di un cinema bellico contemporaneo comodo e piccolo piccolo, che anche nell’universalismo dell’ecatombe umanitaria si guarda l’ombelico, si trincera dietro soluzioni fastidiosamente tradizionali, si offre allo spettatore come un didascalico libro aperto in cui non c’è niente da intuire, niente per cui spingere lo sguardo e il cuore oltre l’ostacolo, nulla per cui lottare. Solo il sentimentalismo e la convenzionalità appiccicaticcia di un autore che pensa che bastino le belle intenzioni. Che invece non sono sufficienti, quasi mai.