Gone Girl/Fincher - L'ombra del dubbio

Cosa rende davvero Gone Girl di David Fincher l’ultimo film hitchcockiano oggi possibile.

C’è una battuta, all’inizio di L’amore bugiardo - Gone Girl di David Fincher, che non va assolutamente sottovalutata, perché è decisamente rivelatrice nella sua carica allusiva. Margo Dunne, sorella del protagonista Nick, parla testualmente di una circostanza in un cui si imbatté in una sua amica di nome Monica, che però in realtà si rivelò non essere Monica. Una striscia di dialogo apparentemente buttata lì, cui è inevitabile non prestare parecchia attenzione, come si fa con molti dettagli che sono solo riempitivi non essenziali nell’economia di una narrazione. Eppure si tratta di una netta prefigurazione di ciò che vedremo, un riferimento incontrovertibile a una femminilità messa in campo come doppio, come seduttiva e respingente ambiguità, come rifiuto del vero a vantaggio della problematica scissione dell’identità. Donne che vissero due volte, insomma, fin da subito. Per non parlare di un ribaltamento di campo ideale che salta subito alla mente: il volto, o meglio, il "cranio" di Rosamund Pike, la prima inquadratura del film di Fincher, e la nuca di Kim Novak, che fa capolino in uno snodo fondamentale di Vertigo.

Immagine rimossa.

Se si è parlato così tanto di Alfred Hitchcock a proposito dell’ultimo film del regista di The Social Network, un motivo dopotutto ci sarà, senza dover necessariamente puntare il dito contro la smania semiologica dei critici (quale strumento, per un critico, se non leggere i segni e farli dialogare con una precisa raffigurazione del mondo e delle cose?). Senza scagliarsi preventivamente contro quegli esegeti sempre pronti, secondo alcuni, a legittimare il capolavoro eletto di turno con connessioni altisonanti o, peggio, con un elenco di citazioni nobilitanti. Occorre forse comprendere, una volta per tutte, che anche i rimandi cinefili possono essere anch’essi indicatori di una concezione del mondo, se maneggiati con cautela e la giusta dose di salutare astrazione ed equidistanza, e non per forza sterili ammiccamenti. E la visione peculiare della donna nonché del rapporto tra uomo e donna come motore psicologico e narrativo - perché con Gone Girl siamo nel regno spietato e ammaliante del racconto, non certo in quello del sessismo o della barricata tra gender da salotto o da talk-show - è un tratto, non il solo come vedremo, che non può non far ripensare al maestro del brivido. Cos’è in fondo Gone Girl, se non un remake neanche troppo mascherato de Il sospetto, in cui la veste rinnovata sono inquietudini tutte contemporanee quali il racconto di sé e l’identità come costruzione narratologica? Al tempo dei social network e dei nuovi media, dove ciò che si è (o si crede di essere) è inscindibile da ciò che si vuol narrare agli altri di se stessi, tale cambiamento d’abito appare difficilmente scongiurabile. Ora come allora, la tragedia è nella mente e l’amore è solo nel cuore, potenziale e artefatto, deformato da maschere d’ipocrisia degne della miglior commedia sofisticata o del cinismo in punta di risata di certe lotte matrimoniali senza quartiere che il cinema ha tanto frequentato (il casché di Nick ad Amy in un momento decisivo del film in tal senso è molto emblematico, perché sembra una farsa, una comica beffarda alla Blake Edwards).

Immagine rimossa.

Uomo e donna vengono allora, come tra l’altro sempre accade nel cinema di Hitchcock, regrediti e ricondotti addirittura agli archetipi, a presenze di ancestrale semplicità, in linea col sottile e ininterrotto gioco delle parti e degli inganni che sotto la patina del whodunit cela una crudeltà sincera e, come tale, primigenia, da alba dell’uomo. Amy è una figura ambigua e tentatrice, detentrice di potentissimi segreti da nascondere e dunque sfuggente, in senso perfino letterale da un certo punto del film in poi (è un caso se nell’appartamento di Nick e Amy c’è un gatto ripetutamente in campo, simbolo da sempre di una femminilità proteiforme e quasi mistica?). Oltre che un’evidente Madeleine, Amy è anche una Marnie postmoderna, una ladra d’identità che ruba a se stessa, il cui trauma non sono i temporali ma, più in profondità, l’aura da ragazza perfetta che i genitori le hanno affibbiata fin da piccolissima (l’Amazing Amy, eroina di una serie di opere per bambini molto di successo). Nick è invece il classico prototipo del common man hitchcockiano, catapultato in una situazione ben più grande di lui e in apparenza ignaro del cuore nero degli eventi, ma che lungo il percorso entrerà in contatto con più di uno dei suoi lati oscuri. Succede la stessa cosa in moltissimi film del regista inglese ed era dai tempi di Frantic di Roman Polanski, andando a memoria, che non vedevamo un protagonista così marcatamente hitchcockiano nella sua commistione di stolida inconsapevolezza e crescente enigmaticità. Non sono certo Adamo ed Eva, Nick e Amy, ma evocano suggestioni lontanissime. A riprova di quanto le stesse parabole hitchcockiane avessero una cassa di risonanza potenzialmente infinita, ben oltre gli ingranaggi della suspense.

Immagine rimossa.

Fincher però Hitchcock non lo omaggia soltanto a un livello interno e molto sotterraneo, ma lo oltrepassa anche, evidenziando alla perfezione ciò che rimane, se qualcosa rimane, nel cinema contemporaneo del magistero del regista di Psyco. Se lo spettatore nei film di Hitchcock aveva “il posto migliore”, come qualcuno diceva a suo tempo, per lo spettatore del 2014 che guarda Gone Girl, bombardato quotidianamente da una miriade di pulpiti che ritengono doveroso convalidare il proprio punto di vista a ogni occasione utile con torrenziali argomentazioni, la posizione è molto meno agevole. Adesso ad avere il coltello dalla parte del manico sono i personaggi, padroni del proprio destino perché abilitati ad alterare la percezione dello spettatore facendo duellare i propri rispettivi punti di vista. Lo slittamento può sembrare minimo, ma invece è decisivo. La realtà, in Hitchcock come in Gone Girl, in compenso è e rimane un meccanismo da decifrare, un rompicapo che non lascia scampo, niente di meno e niente di più di un’adulterazione del vero da ricomporre come un puzzle, facendosi strada come brandendo un machete tra le nebbie e le vertigini, le scale della menzogna e le foschie della memoria, le immagini-simulacro e le docce che lavano via il sangue (il primo attimo di intimità di Nick e Amy dopo il ritrovamento di lei, citazione letterale di Psyco). Perché la realtà è non meno schiava, rispetto a coloro che la abitano, delle convenzioni, delle falsità codificate, delle buone maniere preconfezionate, dei condizionamenti di gender che ci tatuano addosso un elenco interminabile di valori prestabiliti fin dalla culla. In tutto questo magma tossico la soggettività si smarrisce fatalmente. E di soggettivo rimane solo ciò che ognuno può dire e pensare di sé.

La soggettiva, passando da Hitch a Fincher, non è più uno strumento formale e proprio della grammatica cinematografica come lo era nei film di sir Alfred, autore di alcune tra le soggettive più belle di tutta la storia del cinema, ma, nell’epoca della nuova serialità, è radicata direttamente dentro il virtuosismo del racconto, sostituita da un diario privato o da un notiziario alla tv. Fincher, con Gone Girl, si smarca così definitivamente dalle formule sensazionalistiche e irrimediabilmente invecchiate degli anni ’90, quelle di Fight Club e Seven, per dare vita a uno dei thriller capitali del nuovo millennio, in cui la natura stessa del film di tensione è costantemente interrogata, frammentata, vista in sezione attraverso una molteplicità di angolazioni. Esattamente come avveniva con la messa in discussione della detection story in Zodiac: un film dove non c’era e non ci poteva essere un finale o una risoluzione delle indagini cronaca alla mano (il killer non fu mai trovato), analogamente alla scena finale de Gli uccelli, un’opera cui Hitchcock non volle mettere la parola fine, preferendo sospendere, in modo perturbante e lascivo, l’eco di un’angoscia inafferrabile. Perché a contare, oggi come ieri, è la consapevolezza di un relativismo ostinato. L’ombra del dubbio, che prosegue oltre la visione, tra le pieghe di un talamo nuziale o chissà dove.

Immagine rimossa.

Fino a qualche tempo fa, i più attenti lo ricorderanno, non erano in pochi a sottostimare Fincher, a ritenerlo poco più di un artigiano ammiccante e modaiolo, anche se tutto sommato valido (lo stesso si può dire di Hitchcock, in fondo, prima che gli anni ’60 provvedessero a rivalutarlo). E’ proprio la svolta autenticamente hitchcockiana del cinema fincheriano, portata a compimento con lo stesso Zodiac, ad aver determinato il colpo di coda della sua carriera, ad averlo condotto all’asciuttezza esemplare che rende il suo stile il più solido e invidiabile del panorama autoriale americano. A cinque anni distanza dal precedente Panic Room, ben più modesto e ombelicale, che di sicuro omaggiava in modo più pedestre le atmosfere de La finestra sul cortile. Un film, forse il più ossessionato dal controllo e dalla forma che sir Alfred abbia mai girato, che pure Fincher dichiara di aver visto sessanta volte. E non è un caso. Affatto.

Autore: Davide Eustach…
Pubblicato il 29/12/2014

Articoli correlati

Ultimi della categoria