July Tales
Le immagini di Guillaume Brac tengono insieme sentimentale e sociale in un tuttotondo atmosferico che rende giustizia ai corpi delle nuove generazioni.
In July Tales (Contes de Juillet) il riferimento guida per le immagini del regista francese Guillaume Brac sembra essere Rohmer. In realtà, a sorpresa, si tratta di Jean Renoir, il Renoir en plain air di Partie de campagne, della brezza sul volto, dalla luce frastagliata dai rami, del dolce appoggiarsi di una barca sul bordo di un laghetto in piena estate. In una scena della prima parte infatti - il film è diviso in due, in un gioco di dentro e fuori dalla realtà urbana, prima incentrato sul fuori di un’escursione acquatica in un parco e poi sul dentro degli interni di una residenza studentesca - Brac richiama “la scampagnata” quasi sequenza per sequenza: durante la loro gita domenicale Milena e Lucie, due colleghe di lavoro, incontrano Jean, membro della sicurezza del parco, che presto tenta di sedurre Milena portandola in canoa nella parte più romantica di un laghetto. Il tentativo sarà sconveniente, fallimentare e poi anche comicamente triste. Da quel film incompiuto Brac riprende in primis il modo di raccontare due diversi incontri amorosi (perché anche Lucie, apparentemente abbandonata, incontra qualcuno) in un montaggio alternato che porta a un ribaltamento di sorte inatteso; poi la famosa scena del bacio in cui il turbamento emotivo degli amanti si fa turbamento ambientale, specchio d’acqua, vento agitato; ma riprende soprattutto, al di là della dolcezza del tocco di Renoir - mai monocorde, sempre dialettico nella danza tra comico e malinconico –, l’idea presente in quella sequenza di raccordare in un tuttotondo atmosferico il sentimento umano e la vita della natura, e così di interpretare il dramma su una scala più grande di quella che apparentemente pertiene alla persona.
Nell’economia narrativa del primo racconto, intitolato L’ami du dimanche, questo passaggio citazionista – aggiornato con lucidità alle dinamiche del consenso - cambia la posta in gioco e trasforma quello che sembrava una semplice storia di amicizia, delicata ma un po’ anonima, in una più sottile disamina del rapporto tra mondo e individuo: situando l’emozione del singolo sul metro della natura, Brac legittima di colpo la vicenda personale delle protagoniste come questione esistenziale e sociale; esistenziale in quanto legata a una certa universalità degli affetti – cercati, provati, subiti all’interno di un più generale patetismo di cui il mondo partecipa facendosi specchio emotivo –, sociale in quanto caratterizzata come momento di una peculiare condizione antropologica. Non è un caso che la storia delle due amiche si apra su una scena di sfogo in orario di lavoro, che prosegua come parentesi sospesa e isolata dalla linearità delle abitudini quotidiane (in una domenica di girotondi senza tempo intorno a un lago) e che si concluda con un ritorno a quella linearità (il ritorno, come l’andata, avviene in treno, per linea retta e brusca). Scrivendo in sceneggiatura e montaggio la scampagnata come una deviazione isolata, una improvvisa depressione del territorio, Brac la sostanzia come momento di approfondimento delle relazioni umane, occasione di scoperta del sé e dell’altro, ma solo in quanto evasione dalla realtà sociale del lavoro: evasione ovviamente tanto salutare quanto fugace e impercettibile, resa per ellissi sospese continuamente sfaldate dal peso dell’aria litigiosa che dice di un conflitto psicosociale, di uno stress condiviso da tutti.
Non è secondaria nel film questa sensazione generazionale (al regista interessano le generazioni giovani, appena entrate nel mondo del lavoro – e questo film è stato fatto con gli studenti dell’Accademia nazionale di arte drammatica) di un inconfessato, e quindi mal elaborato, stress psicologico che è motore di malessere e cattivi comportamenti, ma anche di fraintendimenti senza colpa e rimorsi senza possibilità di sollievo. Il secondo capitolo, Hanne et la fête nationale, lo illustra sempre sulla stessa scala ingrandita del sociale e del sentimentale, ritardando però il momento di congiunzione dei due poli al finale. Secondo la consueta struttura circolare e a dislivello (inizio e fine a grandi linee coincidono ma tutto nel mezzo ha prodotto uno sfalsamento decisivo) l’episodio si apre e si chiude su una situazione sociale – la festa nazionale francese del 14 luglio – ma si sviluppa intorno alla girandola emotiva tutta privata di Hanne, studentessa norvegese in difficoltà emotiva di fronte alle avance più o meno scorrette di due ragazzi, Andrea e Roman, e alla presenza di un terzo, Sipan. È in questo privato, chiuso nelle mura di una casa per studenti semi deserta che è specchio ribaltato del lago del primo capitolo, che l’inespresso malessere generazionale provocato dalle incertezze di un mondo globalizzato e multiculturale, ma anche diviso in nazionalismi e individualismi passivo-aggressivi (la festa si apre sul boato degli elicotteri militari e con un pedinamento), cerca di sfogarsi attraverso le vie del desiderio.
Un desiderio che da ragione privata si svela presto dinamica esistenziale di sbadata ricerca di conforto nell’altro, e scopre la sua umana megalomania solo di fronte all’improvviso confronto con la tragedia: quella che colpì davvero Nizza alla festa nazionale nel 2016. Il finale del film, in cui con evidente astrazione si sovrappone alla solitaria esplosione emotiva di Hanne il report delle vittime, non è una sparata di pornografia del dolore ma esempio di quel lucido tuttotondo di cui sopra, per cui il destino sentimentale del singolo è rappresentato in occasione della sua esistenza nel mondo. Dopo questa improvvisa vertigine Brac chiude Contes de Juillet con un contro finale disperato e tenero, fatto della consapevolezza dei propri sbagli, con cui aggiusta con grazia e decisione qualsiasi interpretazione pressapochista del suo cinema. Le sue sono immagini solo apparentemente superficiali, in grado di sostenere invece il confronto con il dolore e la morte per cogliere la sensibilizzazione, il farsi corpo vivo di una situazione sociale del mondo; i suoi film fatti di “vedute emozionate” catturano di soppiatto, senza morbosità o strategie voyeuristiche, frammenti che la realtà sottovaluta ma in cui non fa fatica a riconoscersi.