Hereditary - Le radici del male
L'esordiente Ari Aster porta l'incubo della quotidianità famigliare in un horror psicologico solido e perturbante.
Pare estremamente semplice, oggi, nel bel mezzo di una stagione estiva notoriamente carica di uscite horror discutibili, cadere preda di facili sensazionalismi. Eppure, guardando Hereditary, acclamata opera prima del regista statunitense Ari Aster, sarebbe difficile non ammettere di trovarsi di fronte a un prodotto sicuramente al di sopra della media del genere.
Perché, se la vicenda tormentata dei Graham, tra nevrosi, misteri e lutti improvvisi, fa pensare al più classico degli horror a sfondo famigliare, è nei tempi, nei modi e nella costruzione di un orrore sempre più tremendo che il film, presentato in anteprima al Sundance Film Festival, trova la sua più perturbante originalità. Il lutto è infatti solo l’ultimo dei problemi per i membri di questa famiglia, vittime, loro malgrado, di una lentissima discesa dentro un orrore che sa di follia, complotti e settarismo, e di un soprannaturale tirato fuori con la forza, tra mille dubbi, scetticismi e paranoie.
Come i plastici e i modellini del mondo in miniatura che costruisce, ai limiti dell’ossessione, la madre Annie (Toni Collette), svelando, pezzo dopo pezzo, inquietanti tasselli di un passato pieno di ombre, i Graham non sono che pupazzi in balia di forze ben più grandi di loro, vittime di un’eredità e di una predestinazione che diventa manipolazione e da cui pare impossibile fuggire.
Hereditary si trasforma così – in uno stravolgimento inaspettato che, a nemmeno un terzo dall’inizio del film, muta il corso degli eventi alla maniera dello Psycho di Hitchcock – in un horror psicologico che guarda inevitabilmente a classici come Rosemary’s Baby e L’esorcista ma che conserva in sé, forti, quelle dinamiche drammatiche e famigliari da cui è scaturito e ha preso piede. In questa ambiguità palpabile ed estenuante, tra kammerspiel e possessioni demoniache, allucinazioni e sedute spiritiche, Aster costruisce così, con tutta la calma e il tempo che ha a disposizione (127 minuti), la propria parabola di degenerazione famigliare (tema, tra l’altro, esplorato sin dai corti d’esordio), ridisegnando le regole di un horror non più fatto di atmosfere e jumpscare, ma scandagliato – con sorprendente padronanza tecnica ed espressiva – in ogni sua stortura e anomalia, in dettagli pronti a portare con sé il seme del dubbio e della più sconvolgente rovina.
Certo, declinare in chiave horror gli incubi del quotidiano e di un’istituzione come quella famigliare è pratica comune e diffusa da almeno mezzo secolo, così come insistere tanto sui toni dell’inquietudine e del perturbante, calcando (a volte troppo) la mano su uno stile spesso debordante e su una recitazione, a volte, eccessivamente sopra le righe, è cosa tipica per prodotti di questo tipo.
Eppure è innegabile il senso di disagio che un film come Hereditary, anche dopo la visione, si porta appresso, un disagio che parte dal non detto e passa per i suoi protagonisti (a parte l’ottima Toni Collette, l’inquietantissima Charlie di Milly Shapiro), fino a esplodere in un trionfo di dettagli e suggestioni che ne rappresentano – senza troppi sensazionalismi – la forza più intima e originale.