A Quiet Place - Un posto tranquillo
Il piccolo, silenzioso horror di Krasinski gioca sulla specificità di un intero genere, mettendo in scena un mondo senza suoni né parole.
Se c’è una cosa che il cinema ci ha insegnato è che, forse, non esiste genere più cinematografico e più intrinsecamente connesso alla sua stessa specificità dell’horror. Basta allora un’idea, forte ed essenziale nella sua immediata semplicità, perché questo assunto si trasformi, magari, in un piccolo b-movie coraggioso e ai limiti dell’operazione sperimentale, fortemente consapevole e capace di giocare con uno degli elementi fondamentali di ogni horror che si rispetti: il suono.
É pressapoco quello che accade in A Quiet Place - Un posto tranquillo, piccolo film post-apocalittico interamente giocato sul rumore e sulla sua assenza, su una minaccia cieca e famelica pronta a divorare chiunque non sappia prestarle ascolto. È in questo anomalo e terrificante Armageddon, allora, che John Krasinski, alla sua terza regia, dirige e interpreta un curioso ibrido tra The Walking Dead e The Last of Us, mettendo in scena la lotta per la sopravvivenza di una famiglia (assieme a lui la moglie Emily Blunt e i giovani Noah Jupe e Millicent Simmonds) sola contro un mondo allo sbando, minacciata da un fuori campo popolato da creature pronte a divorarla al minimo suono o passo falso.
Non è certo cosa da poco tentare una strada commerciale con un film praticamente muto per la quasi totalità della sua durata, fatto di bisbigli, gesti e sguardi, eppure, A Quiet Place, riesce nell’impresa tutt’altro che scontata di mantenere alta la tensione e di costruire un orrore che non ha bisogno di parole, interamente racchiuso nell’immagine cristallina e orribile di un mostro cieco e attento ad ogni respiro, sussurro o movimento. Mai come in questo caso il cinema assolve al proprio compito, facendo della forma di questo prodotto il senso stesso della propria specificità, la ragione ultima di un’operazione immediata e folgorante.
Certo, non è allo sperimentalismo puro che aspira A Quiet Place, horror a basso costo dall’anima esplicitamente commerciale e ben ancorata alle logiche del genere. Come spiegare, altrimenti, il suo contrappunto musicale onnipresente e, a tratti, invadente (per certi versi, antitetico al senso stesso dell’operazione), o una scrittura spesso grossolana e implausibile (tutta la vicenda legata al parto)? Però, al di là di trovate convenzionali o incerte, al di là del gioco intellettuale e del consapevolissimo esercizio di stile, è comunque da una genuina tensione sperimentale che parte l’operazione di Krasinski, dalla brutale e primordiale consapevolezza del potere del cinema e di un genere che permette di osare più di qualunque altro, pur rimanendo dentro i confini ben precisi e sicuri del prodotto per il grande pubblico.
É così, allora, che in questa breve, silenziosa lotta per la sopravvivenza, ultimo terreno di prova per testare l’unità del nucleo famigliare (l’elaborazione del lutto, i rapporti di potere al suo interno, il passaggio di testimone tra padri e figli), l’horror riacquista la sua forza originale, attraverso una trovata tanto semplice quanto rischiosa. Ma, si sa, a volte il rischio paga.