Hong Kong Trilogy: Preschooled Preoccupied Preposterous
Con il suo terzo lungometraggio da regista Christopher Doyle firma il proprio atto d'amore nei confronti della sua città d'adozione.
Il giorno in cui fu disponibile il programma della trentatreesima edizione del Torino Film Festival questo film non passò inosservato. Le suggestioni provocate dalla città di Hong Kong e da tutta quella vastissima serie di atmosfere, ricordi, immagini e sequenze indimenticabili che hanno segnato il cinema di questa complessa metropoli non potevano certo passare inosservate. In seconda battuta spiccò il nome dell’autore: il regista di Hong Kong Trilogy Preschooled Preoccupied Preposterous è infatti Christopher Doyle, meglio conosciuto come operatore e direttore della fotografia di Wong Kar-wai, con il quale ha messo in piedi un’estetica inimitabile, tutta giocata sui movimenti reciproci di filmico e profilmico e sull’uso assolutamente personale delle luci.
La prima impressione è sbagliata. O meglio, è molto difficile decifrare la natura di quest’opera senza averla vista e questo ha inevitabilmente portato alla costruzione di aspettative di ogni tipo, molte delle quali poi puntualmente deluse. Hong Kong Trilogy è un oggetto molto strano, un documentario leggermente contaminato dalla finzione e dedicato completamente a una città, un lavoro diviso in tre parti, ciascuna delle quali incentrata su una particolare fascia di età.
Più di ogni cosa però, Hong Kong Trilogy è un atto d’amore verso una città da parte di un artista che dalla medesima è stato adottato e amato; una sorta di omaggio antropologico per un popolo di cui Doyle è visibilmente innamorato e che in questo caso decide di descrivere nel dettaglio, senza particolari contraddizioni, ma con un atteggiamento di tipo denotativo atto a mettere in evidenza l’unicità della città di Hong Kong e dei suoi abitanti.
Il primo episodio, Preschooled, è dedicato ai più giovani, ai bambini delle elementari, ed è avvolto da una dolcissima ironia, determinata a mettere in evidenza tutto ciò che c’è di illuminante nel modo di guardare la vita che hanno i giovanissimi, soprattutto attraverso situazioni comiche molto riuscite come quella del canto durante la gita in autobus.
Tra le varie tipologie di personaggi che Doyle decide di raccontare non manca quella che incarna la solitudine, ovvero un bambino che si rifugia nella contemplazione dei fenicotteri per fronteggiare l’assenza di persone al suo fianco. In questo segmento Doyle mette in scena anche il rapporto genitori-figli che alla luce della sezioni successive diventerà sineddoche del rapporto con l’autorità, la quale è molto spesso cieca di fronte ai bisogni altrui, del singolo come delle comunità.
Il secondo capitolo è sicuramente il più corposo di tutti, quello in cui l’autore spende la maggior parte delle proprie energie e dove sviluppa il discorso sull’autorità e la ricerca di libertà del popolo hongkonghese con maggiore efficacia, anche grazie a una vicenda di attualità di capitale importanza. Preoccupied (questo il titolo della seconda storia, geniale perché si riferisce a un’occupazione, quella militanza politica, precedente sia temporalmente che moralmente a quella tradizionale) racconta le vicende legate alla “Umbrella Revolution” del 2014, protesta durata settantanove giorni prima che la polizia sgomberasse i luoghi occupati. Al centro della scena ci sono una serie di giovani poco più che ventenni alle prese con rivendicazioni identitarie legate alla libertà d’espressione e alla volontà di modellare la propria città rompendo con le tradizioni per portarla verso il futuro. È quasi commovente pensare come quei ragazzini goffi e impacciati visti nella prima parte abbiano come fratelli maggiori giovani donne e uomini che sulle spalle di giganti dell’occidente come John Lennon combattono per il proprio futuro, e Doyle è perfetto nell’andare nei meandri di questo movimento e registrarne la temperatura.
Il terzo capitolo si intitola Preposterous e rappresenta la parte più ironica del documentario senza però mai peccare di superficialità, bensì riuscendo a mettere in scena un confronto generazionale di grande acutezza. Al centro della scena ci sono gli anziani, impegnati a partecipare a giochi di appuntamenti intesi come un modo divertente per passare il tempo e combattere la noia della vecchiaia.
Al fondo di questo ritratto emerge la natura arcigna un gruppo di persone che ha lottato tutta la vita per un benessere che adesso ha finalmente la possibilità di godere. Doyle è davvero unico nel mostrare la spontaneità e la passione di questi anziani personaggi, i quali al minigolf o sulle sponde di una meravigliosa spiaggia sono ripresi con la classica, vellutata mano del regista.
Senza essere indimenticabile Hong Kong Trilogy è un’opera che fa perfettamente il suo lavoro, ovvero rappresentare la riconoscenza di un artista verso una città che lo ha adottato e ha ricambiato il suo amore. Un film privo di contraddizioni e veri conflitti, forse fin troppo limpido e pacifico, ma non per errore, bensì per scelta: Doyle non vuole mettere alla berlina ingiustizie o raccontare le crudeltà nascoste sotto coltri di nubi, ma semplicemente dichiarare amore a un luogo che ha segnato la sua carriera in modo indelebile e lo fa in maniera sostanzialmente riuscita e senza perdere di vista il suo inconfondibile stile di ripresa.