Uns Geht Es Gut (We Are Fine)
L'esordio Henri Steinmetz, una delle opere più folgoranti del TFF33
Attraverso una struttura capitolare che smantella ogni parvenza di narrazione tradizionale, We Are Fine si pone sin da subito come un film dal carattere sperimentale, che si disinteressa della costruzione di personaggi forti, di archi drammatici compiuti e della classica struttura in tre atti. A dominare in questo caso è una logica completamente differente, basata prima di tutto sull’accumulo, sulla quantità di informazioni che vengono offerte allo spettatore sequenza dopo sequenza, ma anche sulla qualità delle medesime, in virtù della tipologia degli argomenti trattati di volta in volta. Se infatti nelle prime scene prevale un approccio di tipo denotativo, volto a presentare i personaggi in situazioni narrative bizzarre, divertenti e leggere, con l’andare avanti del film si impone uno sguardo di tipo maggiormente connotativo, tanto da mettere in evidenza le contraddizioni dei protagonisti e quelle tra le relazioni reciproche.
Il film racconta il vagabondare di un gruppo di giovani, quattro maschi e una femmina, che vivono in grande unione, all’insegna di un’esistenza totalmente priva di stimoli, senza un lavoro o una qualsiasi occupazione e alla ricerca di un modo per ingannare il tempo. Da questo punto di vista We Are Fine si collega a quel filone di film legati all’alienazione giovanile e al suo quasi consequenziale sfogo nella violenza. Naturalmente il capostipite e scomodissimo termine di paragone è Arancia Meccanica di Stanley Kubrick, modello con il quale tutti i film di questo tipo sono costretti a confrontarsi. Il film di Steinmetz si lega a doppio filo anche a un’opera come Funny Games di Michael Haneke, tanta è la quantità di violenza sottratta agli occhi dello spettatore ma solo lasciata immaginare. Il protagonista, interpretato da uno straordinario Franz Rogowski, incredibilmente fotogenico, è esattamente quel tipo di personaggio che per elaborare un’esistenza condotta non proprio da vincente si ricicla tuffandosi in una spirale di trasgressioni ed eccessi; una figura per cui mettere in piedi una gang (in maniera mai del tutto dichiarata) rappresenta forse l’unica via d’uscita a un malessere insanabile, l’unica possibilità di autoaccettazione, vista anche un’emarginazione sociale di rara radicalità.
La cosa che impressiona di più di questo esordio è la capacità del regista tedesco di proporre una messa in scena originale, visivamente fuori dai canoni tradizionali e perfettamente allineata con il livello narrativo. I colori saturi vanno a riflettere le esplosioni di violenza, così come gli interni algidi e asettici sono il correlativo di un’esistenza fatta di automatismi e standardizzazioni da cui i protagonisti tentano in ogni modo scappare, anche a costo di risultare bizzarri, goffi, cretini, violenti o finanche criminali. La fotografia dimostra di saper valorizzare i corpi, componente centrale di un film in cui i dialoghi o non esistono o sono scarni e inconsistenti oppure sviluppati in loop disturbanti. La pelle, gli occhi e le ferite dei protagonisti sono messe in scena con una sensibilità pittorica letteralmente fuori dal comune, esaltando le imperfezioni dei volti e i particolari degli oggetti, ma soprattutto lasciando emergere la brutalità così come la delicatezza di questi ragazzi da fondali neri, con un uso del chiaroscuro estremamente metaforico di un disagio e una solitudine quasi abissali.
Un film davvero sorprendente, che arriva a fari spenti e colpisce al cervello e al cuore, come dimostra la sequenza a tavola, nel finale, tra i due innamorati; un momento di rara dolcezza, dove la macchina da presa riesce a cogliere i protagonisti in un istante di grandissima verità, andando a pescare quel senso di genuina umanità presente anche in personaggi spregevoli come quello principale.