Kong - Skull Island
Oltre i riferimenti letterari e la contaminazione con il war movie, il film di Vogt-Roberts segna l’ulteriore passo avanti di un cinema sempre più autosufficiente nei confronti dell'umano.
Che si tratti di redimersi, elaborare un lutto o semplicemente affrontare la crescita, il personaggio medio del cinema americano è sempre inquadrato all’interno di un arco narrativo, un percorso atto a certificare una qualche forma di maturazione. Di traumi fondanti e viaggi dell’eroe sono pieni del resto corsi e manuali di scrittura, abc per la definizione dei personaggi che ritroviamo (almeno in stato embrionale) nel genere come nella commedia, nei percorsi d’autore come nei cinecomics. Questo almeno fino a Kong – Skull Island.
Il nuovo aggiornamento tecnologico della Legendary Pictures porta infatti ad un nuovo livello il disinteresse del blockbuster nei confronti dell’aspetto umano, sempre più relegato ad elemento di contorno e collante strettamente funzionale. Ad oggi solo nella saga dei Transformers possiamo trovare un cinema altrettanto post-umano, ma se i robot di Bay ci offrono, nel bene e nel male, prospettive coscienti e soluzioni sempre più anarchiche riguardo l’evoluzione dell’immagine digitale, quello di Jordan Vogt-Roberts è un film che si muove in questo panorama sintetico con il pilota automatico, senza particolari ambizioni e con impressionante noncuranza.
Nonostante il prossimo crossover con Godzilla, Kong – Skull Island prende le distanze dall’adattamento di Gareth Edwards, che si basava proprio sul confronto tra la prospettiva umana e quella mostruosa, e trovava il suo senso profondo nei nuclei drammatici sollevati dall’arrivo del mostro. Kong al contrario è materia digitale di puro design grafico, un blockbuster dalla confezione estremamente curata, girato meglio della media e ricco di soluzioni visive appassionanti, ma dentro il quale non scorre la minima traccia di sangue, la minima emozione che non sia il brillante ammiccamento della retina. Il trattamento riservato al Capitano James Conrad è in tal senso eloquente: interpretato da Tom Hiddleston (la teorica big star del film), l’avventuriero inglese è relegato a ruolo di comprimario, protagonista depotenziato e pressoché superfluo nell’economia drammatica del film. L’unico personaggio a sopravvivere in quest’appiattimento generale è il colonnello interpretato da Samuel L. Jackson, novello Achab sconvolto dalla morte dei suoi uomini e ossessionato dalla vendetta nei confronti del leviatanico mostro. Tuttavia questa minima caratterizzazione serve più che altro ad innescare il gioco iconografico del film, un monster movie che alla riflessione nostalgica sul cinema che fu (l’operazione di Peter Jackson) preferisce le immagini più pop e seventies del post-Vietnam. Ambientato subito dopo il conflitto, debitore evidente del Conrad coppoliano, Kong rinasce dalla mescolanza di generi ben lontani tra loro, e trasforma la caccia al mostro in una folle occasione di rivalsa per la cocente sconfitta in Vietnam. Nei momenti migliori il risultato che ne esce è un lunapark stilizzato di critica antimilitarista, riferimenti letterari e devastazione digitale, ma se guardiamo al film complessivo tutto resta ad un livello ludico e superficiale, coerente con l’ulteriore passo avanti di un cinema sempre più autosufficiente nei confronti dell’umano.