Makanai
Hirokazu Koreeda si cimenta per la prima volta con la serialità, inquadrando il percorso di formazione delle aspiranti geisha con assoluta levità e tenerezza, senza però mancare di lavorare sottotraccia sulla complessità e profondità delle sue immagini.
Dalla lontana prefettura di Aomori, due quindicenni, Kyio e Sumire, si trasferiscono a Kyoto con il sogno di diventare maiko, apprendiste geisha (o geiko). Vengono accolte in un’okyia, la casa in cui le maiko vivono in comunità assieme alle loro insegnanti (da loro definite madri). Delle due, è Sumire ad avere il talento sopraffino e il carattere stoico necessari per raggiungere l’obiettivo. Kyio, al contrario, è impacciata, trasognante, fino a scoprirsi persino disinteressata. Con sua grande sorpresa, si rende però conto che un modo per restare accanto all’amica (dopo essersi promesse di non separarsi neppure nelle difficoltà più grandi) ancora c’è: quello di sfruttare il suo amore e il dono per la cucina vestendo i panni della makanai, colei che si occupa della preparazione dei pasti per le maiko. Da questo espediente di semplice (financo telefonata) serendipità, muove un racconto in nove episodi dagli angoli smussati e le forme aggraziate, dove il percorso bifronte delle due protagoniste si scopre scevro delle asperità proprie del romanzo di formazione, neppure di quelle più lievi.
Ispirato dal manga Kyio in Kyoto: From the Maiko House di Aiko Koyama, con Makanai Hirokazu Koreeda trova per la prima volta spazio tra le maglie della serialità e di quelle produttive di Netflix, dimostrando tuttavia di esprimere enorme libertà nell’elaborazione della materia. Perché Makanai, come dicevamo, è materia assai docile e genuina, quasi bonaria nella superficie, dunque scopertamente antitetica rispetto a qualsivoglia oggetto partorito dal colosso americano. Piuttosto, Koreeda resta dalle sue parti, in particolare quelle tutte al femminile di Little Sister (2015), spogliandole di ogni curvatura drammatica e sposando per intero la misura di una pacatezza avvolgente, come il dono di una coperta morbida e di un pasto caldo, senza che neppure si insinui il dubbio che possa mancare elettricità o una qualche forma di tensione al racconto. Non dobbiamo però cadere in un errore di prospettiva: le immagini di Makanai non sono materia inerme, docile, da esperire come sola pomata lenitiva e strumento di distensione muscolare. C’è molto di più.
A un certo punto della serie, Momoko, la geisha a cui Sumire è affidata per la sua formazione, assai affascinante e dal carattere prismatico, divisa tra l’affetto per un uomo (tra gli impedimenti delle geisha c’è quello di non sposarsi) e l’amore per il suo lavoro, si sta esercitando in solitaria nella danza del kurokami. Sumire la osserva oltre la fessura di una porta scorrevole, ed è raggiunta dalla sua maestra. Il kurokami, dice quest’ultima, ritrae una donna che pensa al suo amato che non le resta mai accanto, mentre il dolore continua a farsi spazio nel suo cuore. Ma attenzione, la danza del kurokami, fatta di meccanicità lenta e gestualità geometrica, si espone a un rischio: “se esprimi troppo l’uomo, il tuo mai (la danza) diventa piccolo”. Bisogna, quindi, “mostrare ciò che non si vede, senza mostrare troppo”. La performatività come agentività sottotraccia, sottopelle, di un desiderio e di un movimento del cuore; ciò che per l’appunto fanno le immagini di Makanai.
Dentro la classica formazione koreediana della famiglia per scelta, definita dall’esposizione di buoni sentimenti e gesti nobili, nel lucore morbido e ovattato che si posa sui volti delle ragazzine e si diffonde sulle immagini, il regista giapponese inscrive microscopici angoli bui delle lotte intestine che si agitano in ciascuno dei personaggi, mentre si sforzano di mantenere il controllo della propria emotività. L’amore non corrisposto del signor Ren e della triste Yoshino, quello taciuto di Sumire per l’amico d’infanzia a cui comprende di dover rinunciare, come le rinunce d’amore di Momoko e quelle artistiche della giovane Tsurukoma (forse il personaggio più affascinante da esplorare). Ma, su tutte, c’è una tensione, una qualche vibrazione dentro gli occhi della Kyio sempre impacciata, col suo enorme sorriso e le espressioni buffe, come se l’abitare gli spazi dell’okyia sforzandosi ogni giorno di soddisfare l’appetito delle maiko non giungesse mai a un completamento, come se ci fosse di più, un punto cieco o un alcova nel suo cuore, che Koreeda mette perfettamente per immagine in un’inquadratura fissa che mostra Kyio di spalle, silente e immobile, col vassoio delle portate consumate dalle sue compagne, rivolta a guardarle mentre tornano a divertirsi nella preparazione di un simpatico siparietto a carattere zombifico. E la distanza tra i corpi di Kyio e delle maiko (Sumire compresa), pare per un attimo siderale, insistente quanto la lunga durata della sequenza.
Le immagini di Makanai dicono allora davvero tanto mostrando poco, come la danza del kurokami. Neppure ci vengono offerte coordinate per l’orientamento di uno sguardo occidentalizzato come il nostro, nessun approccio didascalico della scrittura che accompagni la ricercatezza delle tradizioni e delle abitudini delle geisha, così come quelle dei piatti. Un pregio che alimenta la curiosità e l’appetito, la fiducia conciliata per ciò che guardiamo. “Quant’è bella la luna stasera, non è così?” chiede un signore di buone maniere alla geiko che vorrebbe avere accanto per la vita. Ecco, nessuna didascalia a dirci che l’espressione in giapponese è il perfetto equivalente del nostro “ti amo”. E non potrebbe avere più pregnanza, più forza di così, col suo mistero taciuto, inespresso.
Quanto è bella la luna stasera, non è così?
Sì, è davvero bella.