Un affare di famiglia
Palma d’oro al Festival di Cannes, Kore’eda firma il suo ultimo meraviglioso ritratto di famiglia, tra l'utopia dei sentimenti e la questione morale.
«Tutte le famiglie felici sono simili tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo», sentenzia Tolstoj nel suo incipit di Anna Karenina. Nella piccola casa di Osamu si vive però di una felicità diversa, un’oasi sospesa dove ci si sceglie per sfuggire a quel mondo che rifiuta e maltratta. Un affare di famiglia, Palma d’Oro a Cannes, è un ulteriore tassello del discorso che Hirokazu Kore’eda ha aperto sin dai tempi di Nobody Knows: la famiglia come piccola comunità da cui si impara a pensare, a relazionarsi, ad amare, a odiare.
Osamu e il piccolo Shota, tornando a casa dai soliti furtarelli, trovano per strada una bimba tutta sola, sembrerebbe abbandonata e decidono così di accoglierla tra loro. A casa si vive con poco: lavori precari, piccole truffe ma tanto calore, cibo condiviso, oggetti accumulati, carezze e gesti di complicità. Kore’eda ci mostra subito quel mondo di particolari, di dettagli, attraverso uno sguardo incantato, mai voyueristico, che tocca le rifiniture della delicata banalità. L’arrivo di Yuri mette subito in moto delle domande. Quella che vediamo sembra una normale famiglia: la nonna saggia e affettuosa, la madre che tira avanti la baracca, il padre svogliato e truffaldino, una zia (o chissà) che si guadagna da vivere come spogliarellista e il piccolo Shota che subito accoglie la nuova arrivata. Ognuno incasellato nel suo ruolo. La bimba fugge dalle violenze e i maltrattamenti dei suoi veri genitori e qui trova l’amore di quella che parrebbe una famiglia perfetta. Ma l’equilibrio della casa viene interrotto da un evento che fa emergere i segreti di quel fittizio microcosmo che cessa di funzionare.
«Non scegliamo i nostri genitori» dice l’anziana nonna, una frase emblematica su cui ruotano gli ultimi film del regista giapponese: la questione morale della genitorialità biologica e della genitorialità “affettiva”. Bisogna fingersi necessariamente qualcun altro, come un padre o una madre, per creare le sembianze della felicità? Quanto la menzogna può resistere e sostituire ciò che viene socialmente considerato giusto? Sono queste due tra le tante domande che Un affare di famiglia solleva. Se da un lato, in un primo momento soprattutto, lo sguardo del regista sembra così rapito da certi rituali e minuzie di quella casa fuori dal tempo, dall’altro ci mostra tutta la tragicità dell’essere un bambino. Kore’eda si abbassa al livello dei più piccoli, ne coglie quel vivere così indifeso di fronte alle mostruosità degli adulti, quella voglia di restare in silenzio e di nascondersi nella normalità del gesto quotidiano. La perdita del primo dentino di Yuri è metafora del distacco da qualcosa di più grande: solo il fratellino riesce veramente a condividere con lei quel momento, solo lui può comprenderla. E così Kore’eda ci mostra ancora quello che è lo scarto fondamentale che emerge da questo film. Non è solo una questione tra ciò che eticamente giusto e ciò che lo è a livello sociale e legislativo, la differenza sta anche tra il mondo degli adulti, fatto di disuguaglianze, menzogne, brutture di ogni tipo e quello dei bambini che ne subiscono le conseguenze. Creature sospese e immobilizzate nei loro sguardi malinconici che sognano la fuga, erbe fluttuanti in balìa di un mondo spietato.
Il freddo, i maglioni, i cappotti, poi l’arrivo dell’estate con i bagliori della pelle bagnata dall’afa, il mare e poi di nuovo il freddo e l’inverno con le sue nevicate. Lo scorrere del tempo con il disgregamento di questa famiglia viene scandito dal passare delle stagioni, come solo gli orientali riescono a sentire e rappresentare: il mondo è fugace e le cose muoiono nella loro ineluttabile caducità. I solidi sentimenti della casa cominciano a dissolversi perché invasi dalle rigidità del mondo contemporaneo, quell’utopia non può trovare riscontro nella realtà, deve stare ai margini della periferia e nel momento in cui viene raggiunta dal mondo reale si frantuma. Anche i dubbi sull’effettività dei sentimenti prendono il sopravvento, con profonda tristezza ci si rende conto della precarietà di quell’oasi felice: troppo perfettamente estranea.
Tutti nasciamo figli, non tutti diventiamo genitori, sorelle o nonni. L’amore è anche una questione di scelta.