The Third Murder
Kore'eda si affaccia al legal-thriller tentando la strada della metafora e dello scontro generazionale.
Kore-eda Hirokazu è un autore da sempre interessato alle parole non dette, alle amarezze, ai piccoli momenti e alle svolte della vita quotidiana. Nel corso del tempo, seguendo il nome tutelare di Ozu, ha sviluppato una delicatezza, una trasparenza, una gentilezza di sguardo davvero rare nel cinema contemporaneo. Certo, specialmente negli ultimi due film, si poteva avvertire una lontana, appena accennata, sensazione di maniera. Proprio per questo aspettavamo tanto The Third Murder, un legal-thriller solo apparentemente lontano dalle sue opere più recenti. Perché Kore-eda è prima di tutto un regista di sentimenti, attratto dal rapporto tra uomo ed evento, fra sensibilità e azione. Proprio per questo The Third Murder si pone fin da subito come quel film che, attraverso l’espediente processuale, racconta il conflitto morale di un individuo e, a livello metaforico, di un intero paese.
Il celebre avvocato Shigemori deve difendere un uomo incriminato per aver assassinato il proprio datore di lavoro. L’accusato, fin dall’inizio, si dichiara colpevole. Eppure, tra le pieghe del racconto, s’insinua lentamente il dubbio che le cose non siano andate esattamente così.
Le immagini trasparenti di Kore-eda, tanto spontanee quando si tratta di raccontare relazioni intime e familiari, sembrano qui continuamente alla ricerca di una casa, di uno statuto di appartenenza, di un equilibrio. Non riescono mai davvero ad afferrare, a mantenere un tempo filmico, rischiando continuamente una sensazione di tedio o di incertezza. A partire da un testo scrittissimo, metaforico fino al didascalismo, la messa in scena di Kore-eda si fa ostinatamente illustrativa. Giustissimo privilegiare l’anima del racconto, ma qui la sensazione è di trovarsi di fronte a un progetto su commissione, a un qualcosa che cerca, inquadratura dopo inquadratura, autore, identità, posizione. Ma che, soprattutto, porta avanti l’idea di un film stanco e sempre in ritardo.
Il legal-thriller è il genere che più di ogni altro si interroga sulla verità e sulla sua impossibilità ontologicamente intrinseca. Spesso la giustizia è autentica nemesi del sentimento: la legge da una parte, l’umano dall’altra. L’intuizione più interessante potrebbe essere rintracciabile nel conflitto tra legge e morale, nell’idea stessa di punizione - pena di morte per impiccagione. Se il protagonista di The Third Murder è recidivo, commette due volte lo stesso delitto, allora qual è il terzo omicidio del titolo se non quello che lo Stato ha in serbo per lui? Ma questo nel film sembra assai più marginale, perché Kore-eda pare più affascinato dall’indagine sulle origini della violenza e del male: prendono parola l’avvocato e suo padre, due generazioni programmaticamente a confronto. Il conflitto è tra l’innatismo del male e la sua acquisizione: è il contesto che rende gli uomini assassini o il loro stesso DNA? Niente di nuovo sotto il sole. Il rischio del compitino è dietro l’angolo, solo che Kore-Eea riesce, comunque, a salvare miracolosamente il film proprio in seno al suo umanismo. È sufficiente? Forse, ma con quel campo lungo iniziale, con quell’omicidio notturno e minimale, avremmo sognato ben altro film.