Perfect Days
Uno dei modi e dei mondi possibili che il cinema può scegliere è la via della sottrazione, la semplicità delle forme e la volontà di guardare solo le cose belle della vita di tutti i giorni, anche forzando questa vista, questa possibilità. Wim Wenders imbocca ora questa via, consegnandoci uno dei film migliori della sua lunga carriera.
Komorebi è un’espressione che i giapponesi utilizzano per riferirsi alla “luce che filtra tra le foglie degli alberi”. Un modo come un altro con cui la cultura di un paese prova a scorgere qualcosa di bello nel quotidiano, nelle cose estremamente semplici e prosaiche della vita che ci circonda. Proprio come fa Wim Wenders con il suo ultimo film, Perfect Days, in cui affida al protagonista la capacità di alzare sempre gli occhi al cielo per catturarne istantaneamente la bellezza, ricordarne l’appartenenza comune, quindi sorriderne. Ne approfitta pure per scattare quotidianamente delle foto con la sua vecchia Olympus analogica. La punta verso l’alto e fissa l’impermanenza del fruscio del vento e della luce morbida tra le foglie in un’istantanea in bianco e nero. Allo stesso modo in cui guarda e fa esperienza della bellezza del komorebi, nelle sue lunghe notti di riposo Hirayama (omonimo del protagonista de Il gusto del sakè di Ozu, di cui il film è tributo diretto, e interpretato da uno straordinario Kôji Yakusho) sogna i medesimi scorci, con la stessa luce sovraesposta delle sue fotografie, gli stessi scenari fuori fuoco, in bianco e nero, gli uni confusi e posti disordinatamente sugli altri.
Sogni liquidi che svaniscono al sopravvenire del nuovo giorno, brevilinei e dolci come un haiku, ma che Wenders restituisce come traccia ineludibile di uno sguardo in grado di saper discernere, di saper decidere cosa guardare, per affidarlo alla custodia della memoria e ai leggeri gorgheggi dell’inconscio. Di più, quei sogni son fatti della stessa pasta di ciò che guardiamo, ne sono l’emulsione analogica, e il montaggio di ciò che abbiamo deciso infine di trattenere. Almeno per Hirayama, che ha fatto di sé quasi alla lettera archivio di ciò che vuole guardare, allontanando tutto il resto, come un lungo film della vita composto solo delle sue inquadrature preziose. E ne avrebbe da scartare, di brutture, di momenti negativi: Hirayama, sulla sessantina, lavora forse da un’eternità come addetto delle pulizie dei bagni per una ditta di Tokyo. Ogni mattina si alza quando il sole è ancora basso dietro la linea dell’orizzonte, beve caffè in lattina da una macchinetta, e raggiunge il luogo di lavoro dove lo aspetta un collega più giovane e frustrato che continuamente si lamenta dell’inutilità di quello che fanno (“tanto sporcheranno di nuovo”, dice ad Hirayama).
Con fare routinario, l’uomo elabora una propria poetica del vivere strenuamente secondo la disposizione del bello, da cogliere per sottrazione e con un affiancamento morbido e costante alle arti della letteratura e della musica. Le poche parole pronunciate emergono come epifanie leggere (specie quelle rivolte alla nipote in fuga dalla madre), le letture serali prima di andare a letto sono come chiavi di comprensione del mondo, la musica in audiocassetta schiude in forma limpida i versi pronunciati da Lou Reed, The Animals, Nina Simone, che parlano di “giorni perfetti”, di “nuove albe, nuovi giorni, nuove vite” sentendosi bene. È la lotta di un savio o di un pazzo contro il morire delle cose e contro la resa incondizionata a un’esistenza necessariamente vestita di miseria, fatta di un’accettazione passiva all’abiezione del mondo. La lotta di un corpo analogico contro il reame simulacrale del digitale, della sua verità materica contro la post verità. È un modo personale di stare al mondo, meglio, di scegliersi un mondo. Hirayama lo dice, a un certo punto, che il suo è un mondo di tanti possibili e compresenti. È diverso, forse remoto, sicuramente di una piccolezza infinitesimale, un vecchio rudere destinato a collassare. Ma funziona perché è frutto di una scelta venuta da lontano e ponderata dall’esperienza, come appunto lo è il cinema di Wim Wenders giunto a questa parte forse terminale della sua carriera.
Lontanissime dalla ricerca e dall’esperienza del viaggio, quand’anche questo era un falso movimento come nel film omonimo, le immagini di Perfect Days sono ora senili e vegliarde come il suo protagonista. Come Ozu, e non lontane da Kaurismaki (specie l’ultimo di Foglie al vento, che ha condiviso con questo film la presentazione alla Croisette nel 2023), Wenders si appresta a una trascendenza silente, un modo di pensare le immagini di cui forse perderemo traccia nel cinema venturo. E sarebbe tuttavia sbagliato leggere l’ultimo Wenders come un autore del tutto differente dalle sue versioni precedenti, specie da quelle degli esordi. “Il mondo è fatto di tanti mondi. Alcuni di questi sono connessi tra loro, altri no”, dice ancora. Eccola, la lettura forse più calzante, quella più esatta. Nel mondo remoto di Alice nelle città, il foto-reporter Philip Winter/Rüdiger Vogler intraprendeva un viaggio per accompagnare a casa una bambina che non conosceva affidandosi solo a una fotografia, quella di una casa in campagna, una meta da raggiungere. Era il cinema di uno sradicato, come un po’ tutto il Nuovo Cinema Tedesco, disgustato dalla dimenticanza della generazione dei padri, privato di un heimet, uno sguardo non conciliato alla ricerca continua (il road movie) di un’identità da riacciuffare. Philip Winter scattava foto di luoghi trovandovi poi dentro un vuoto, la loro aura era già trascorsa, marginalizzata nel passato. Trattenuto in una dead-end, le immagini non erano più in grado di dimostrare la sua presenza nel mondo, né la consistenza delle cose attorno. Era semplicemente scivolata via, o non era mai stata lì. Come la casa della nonna di Alice nella fotografia, che tradiva la sua funzione perché quella nonna non c’era più, impronta di una realtà svanita. Fino almeno all’intervento di Alice, che scattava una foto a Philip per aiutarlo a riconoscersi, e con lui trovava infine un punctum di emersione emotiva in un’immagine che li vedeva assieme, ridendo e con facce buffe.
Mentre quel mondo si formava e si compiva, moderno perché senza utopie, ne era già contenuto un altro, non ancora esposto, non ancora toccato. Quel mondo cioè che un heimet lo ha generato da sé per un puro atto di volontà, che non insegue nulla perché sceglie di vedere le cose davanti e attorno a sé, anche se durano un’istante e la luce si sposta, svanisce, come l’effetto del komorebi. E giacché per Philip “nessuna immagine ti lascia mai da sola, vogliono tutte qualcosa da te”, sono ora gli stessi Hirayama e Wenders a scegliere per sé ciò che le immagini vogliono da loro, quindi ciò che possono dare in cambio, facendo tacere tutto il resto, conciliandosi col loro tempo, vivendolo mentre si compie, prima che sia tardi, perché “adesso è adesso” e i giorni perfetti non possono esistere in nessun altro momento.