Godland - Nella terra di Dio
Il viaggio di Padre Lucas diventa un viaggio dentro al cuore delle sue immense tenebre, in una "terra malformata" e spietata che non permette dissimulazione alcuna.
«L’orizzonte era sbarrato da un nero banco di nuvole, e quell’acqua - che come un viale tranquillo porta ai limiti estremi della terra -, scorrendo scura sotto un cielo coperto, sembrava condurre dentro al cuore di un’immensa tenebra».
Nel finale di The Fabelmans, John Ford (interpretato da David Lynch) invita il giovane Sammy a individuare la linea dell'orizzonte in due immagini che gli indica. Poi, con tono pungente e burbero, aggiunge che se l'orizzonte è in basso è interessante, se è in alto è interessante, se è nel mezzo è una noia mortale. D'altronde il cinema ruota spesso attorno al concetto di orizzonte, non tanto in quanto semplice linea, bensì come percezione, come prospettiva dello sguardo sulle immagini e sul racconto, denotando talvolta anche la condizione intima ed emotiva dei personaggi. In Godland, terzo lungometraggio diretto dall'islandese Hlynur Pálmason, è una variazione dell'orizzonte ad aprire il film, mentre il protagonista attraversa il Mar del Nord diretto in Islanda. Le acque burrascose increspano il percorso della nave e l'orizzonte oscilla vertiginosamente, uscendo persino dai margini dell'inquadratura. Cielo e mare (qui come simbolo biblico di instabilità, irrequietezza e tormento) sembrano rovesciarsi, in un'immagine che fa da prodromo al tumultuoso viaggio che di lì a poco intraprenderà padre Lucas e che sconvolgerà il suo orizzonte personale.
Il viaggio è quello che alla fine del XIX secolo porta il giovane prete luterano danese in Islanda, per costruire una nuova chiesa e per fotografare gli abitanti dell'isola. L'attraversamento dei luoghi sconfinati, impervi e desolati che si trova dinanzi diventa per lui un viaggio ai confini del proprio essere, che mette a dura prova la sua mente, l'identità e la fede in Dio. Un progressivo tormento che logora dapprima il corpo, con Lucas costretto in ginocchio appena sbarcato sulla terraferma, a causa del peso dell'attrezzatura fotografica che porta sulle spalle, e successivamente fiaccato dalle intemperie e dalle difficoltà dell'itinerario, sino a sfiorare la morte. La trasformazione del volto, divenuto scarno e segnato da occhi che sembrano irrorati di sangue, testimonia l'equilibrio effimero che Lucas ha raggiunto nella comunità, celando la discesa nel cuore delle tenebre che è in atto nel suo profondo e che libera la follia e la violenza insite nell'animo umano, risvegliate dallo scontro con la natura più spietata.
In Godland le reminiscenze conradiane si legano agli elementi fondanti del western, soprattutto l'essenza direzionale e lo sguardo che si estende verso terre selvagge e da conquistare. Pálmason riporta alla luce una delle pagine della storia europea meno ricordate, quella dei rapporti coloniali tra Danimarca e Islanda, proseguiti sino al 1944, ed è da questa connessione che prendono forma i contrasti che alimentano il film. Le opposizioni linguistiche e culturali sono messe in risalto dalle tensioni tra Lucas e Ragnar, una guida locale, che non riescono, ma soprattutto non vogliono, comprendersi, rifiutando spesso di parlare o di accettare la lingua dell'altro. Questo dualismo emerge sin dalla comparsa del titolo originale, Vanskabte Land (in danese) e Volaða Land (in islandese), "terra malformata", che più del titolo internazionale racchiude il senso di un'isola spietata (come viene definita dai suoi abitanti) ed estrema, dove l'orizzonte, spesso sbarrato dalla nebbia o da scenari innevati, non riesce a disegnare una fine. Il formato scelto, il 4:3, condensa tutte le tensioni del racconto e delle immagini, rievocando le fotografie dell'epoca, ma ancor più esprimendo il senso di interiorità e oppressione e il conflitto tra lo splendore dei paesaggi islandesi e la durezza di una natura inospitale e veemente.
Godland, dunque, è anche, e forse prima di tutto, un film sul linguaggio. Non solo quello verbale, ma in particolare quello delle immagini, sin dal ruolo che ricopre nel film la fotografia. Come sottolineò Susan Sontag, "ogni fotografia è un memento mori e fare una fotografia significa partecipare della mortalità, della vulnerabilità e della mutabilità di un’altra persona o di un’altra cosa". Un concetto che sembra aleggiare anche sul film di Pálmason, in cui ogni sequenza è sospinta da un persistente afflato di morte e dove si può morire anche solo attraversando un fiume. L'inquadratura si sofferma spesso sui personaggi, a simulare le fotografie scattate da Lucas, e immortala dall'alto il corpo in decomposizione di un cavallo, che rimane visibile nonostante il passare del tempo, in una natura che non permette alcuna dissimulazione. Sono momenti di una staticità che spezza le lunghe e frequenti panoramiche che si susseguono, dando però movimento a degli istanti immobili e richiamando quello che è stato il passaggio tra la fotografia e il cinema.