Home

Il film di Fien Troch racconta la storia di un risveglio, quello della coscienza, all’interno di una generazione atrofizzata.

Ogni Venezia ha il suo teen-movie in salsa virtuale, il film-bolla in cui corpi mai più innocenti sprofondano negli abissi digitali. Da Spring Breakers a Mate-me por favor c’è quest’attrazione/repulsione nei confronti di quelle che ormai sono identità numeriche. Quest’anno dall’Olanda arriva Home di Fien Troch, che parte come una sorta di Korine per poi essere completamente contagiato dal senso di colpa, entrando piuttosto nei territori di un Paranoid Park. Qui c’è qualcosa di diverso, di non ascrivibile, di meno classificabile rispetto alle opere del filone prima elencato.

Non siamo in quel mondo orfano di humanitas descritto da Spring Breakers, non siamo all’interno dell’automatismo di un videogame fuori controllo, anzi: i protagonisti di Home gradualmente tornano a sentire, perseguitati da una colpa che non li lascia dormire. Altroché immuni: si sente, si prova, si scopa, non si simula. E’ questo il punto. Le cose si fanno realmente, gli avatar virtuali sono dei doppi che non escludono gli originali. E’ come se la vita di tutti i giorni si lasciasse vivere, compartecipando con quella virtuale. Protagonisti del film sono Kevin, ragazzo uscito di prigione affidato alla famiglia del coetaneo Sammy, e John, diciassettenne che, giorno dopo giorno, vive una relazione complicatissima con la madre (che pare un personaggio uscito da un film horror).

All’inizio del film, i ragazzi di Fien Troch sono atrofizzati, annoiati, spenti. Sembrano quasi dei reduci, il loro sguardo è assente, come se il continuo susseguirsi dei giorni gli avesse tolto qualsiasi scintilla, qualsiasi barlume dagli occhi. I loro genitori, paradossalmente, sono molto più nel mondo, molto più vitali dei figli. La vita dei ragazzi è rinchiusa tra un parcheggio, una casa e una scuola. Proprio per questo le due generazioni non si capiscono, sono incapaci di comunicare, di aiutarsi, di sentirsi. E’ un discorso di valori, è un discorso di tempo, è una questione di mondi distanti anni luce.

Non c’è più nulla di sorprendente: certo, qualche video sul cellulare, una canna tira l’altra, un po’ di alcool e, se va bene, una sega veloce prima di uscire nel mondo. Lo dice uno dei protagonisti del film: ha bisogno di qualcosa che lo emozioni, di qualcosa che lo faccia sentire vivo. Uccidere un uomo, probabilmente. Serve una scossa, una puntura improvvisa, un evento che torni a far percepire il mondo, il corpo, lo spazio, qualcosa che liberi dall’apatia. Eppure non si tratta di parlare dell’omicidio come propulsore erotico (Bataille è lontano anni luce), si tratta di tornare a sentirsi uomini, di trovare qualcosa che abbia ancora il potere di farci male. Ferire l’altro per tornare ad avere un rapporto con se stessi: ecco come Home diviene allora la storia di un risveglio, quello della coscienza.

Da parte sua, la mano di Fien Troch non può che seguire i movimenti dei protagonisti, con una macchina a mano che riesce abilmente ad evitare ogni eccesso. Gli interessano i corpi certo, ma non come oggetti del desiderio, ma quali mummie in attesa di un risveglio. In questo cinema, necessariamente fuso ai media virtuali, entrano fin dall’inizio riprese fatte col cellulare, immagini verticali esplose in un mare di pixel. Non poteva essere altrimenti: viene quasi il dubbio che quei video siano girati dagli stessi giovani protagonisti del film, chiamati a riprendere la loro vita quotidiana con la smania di registrare tutto, filmare tutto, condividere tutto. E nella registrazione, solo nella registrazione, i personaggi sembrano vivere, divertirsi, relegare frammenti di un’esistenza che un tempo avremmo definito normale. Come se ormai quel formato fosse il rifugio verticale dove poter essere liberi dai genitori, liberi dagli estranei, liberi soprattutto dal cinema. In pace, in vita. In fondo il titolo del film, Home, non si riferisce proprio a questo?

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 03/09/2016

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