Ieri/oggi – Speciale Howard Hawks: Il fiume rosso
Primo western vero e proprio di Hawks, nel quale il regista può già codificare la sua visione del mito della frontiera. Un film assolutamente perfetto e indimenticabile.
«Legato al mito del cowboy, il bestiame diventerà il pretesto per esaltarne le qualità di coraggio, di onestà (o di disonestà) e di giustizia, e ne determina tutte le azioni. Il bue è necessario alla sopravvivenza dell’immigrante, come lo era per la sopravvivenza dell’Indiano. […] Ma la storia del bue è la storia di una perpetua transumanza. E per capirlo, è necessario aver ammirato il rigore tragico di Il fiume rosso, dove le enormi mandrie marciano nella polvere, sotto la pioggia, sotto la tempesta, nelle tenebre della notte» (Monique Vernhes).
Primo western di Howard Hawks, ll fiume rosso già contiene al suo interno tutta la poetica della frontiera di un regista che, all’interno del genere, si è occupato del rispetto e dell’affermazione delle tradizioni come nessun altro prima (e dopo) di lui.
Ispirato alla reale apertura della pista Chisholm, inaugurata dopo la fine della Guerra di Secessione per permettere ai commercianti di bestiame del Texas di raggiungere gli stati centrali dell’unione, il film è ancora oggi l’esempio perfetto di fusione tra Storia e Mito che si completano a vicenda, grazie anche a una narrazione cadenzata dalla lettura dei capitoli (inventati di sana pianta) di Early Tales of Texas: la storia dell’allevatore Tom Dunson (John Wayne) che con il passare dei decenni si lascia contaminare dal morbo cieco del capitalismo è quindi, banale a dirsi, l’ennesima rappresentazione delle origini e dell’unificazione del grande paese, raccontata come al solito da un punto di vista ad altezza uomo, perchè «l’uomo che Hawks filma non è né un dominato né un dominatore; è l’uomo in possesso di un mestiere preciso, da lui compiuto senza né ricercare né evitare i rischi» (Jean Wagner). È la struttura narrativa stessa a sottolinearne la componente mitica, attraverso una simmetria simbolica (andata/ritorno) sbilanciata dal trascorrere del tempo e da un’ellissi lunga quindici anni. Tanti separano il viaggio di insediamento del protagonista da quello a ritroso, durante i quali le tensioni scoppiano e si compie la cristallizzazione definitiva delle tematiche care ad Hawks: l’amicizia virile, il rapporto padre/figlio (non in senso letterale, in questo caso), l’individualismo, l’etica del lavoro e del sacrificio.
E in un film dominato dal dualismo di figure maschili mature, rudi e testarde (ma non prive di sfumature: Dunson-Wayne non nega una sepoltura cristiana agli uomini che avevano cercato di ucciderlo) oppure giovani, fragili e in cerca di affermazione, non è un caso che l’apertura e la chiusura siano affidate a ruoli femminili che sembrano passarsi il testimone tra loro (e tra i rispettivi uomini): da un lato Fen, abbandonata da Dunson all’inizio del film per non sottoporla ai rischi del viaggio (senza sapere che invece sarà proprio questa scelta a determinarne la morte), e dall’altro Tess, innamorata di Matt-Montgomery Clift, fautrice della riappacificazione finale tra i due protagonisti. Nel mezzo, il vecchio Groot interpretato dall’immancabile caratterista Walter Brennan, testimone del mondo antico che sta per lasciare il posto a quello nuovo.
Tutto indimenticabile e assolutamente perfetto, a cominciare dalla sequenza della partenza della mandria (che Hawks introduce con un montaggio serrato sui primi piani degli uomini) e da quella, altrettanto epica, dell’attraversamento del fiume; per i più deboli di cuore, però, anche il sorriso finale tra John Wayne e Montgomery Clift non è certamente da meno. Insomma, il Cinema.