Ieri/oggi - Speciale Howard Hawks: "Rio Lobo"
L'ultimo film di Hawks arriva fuori tempo massimo, ma conserva la sicurezza, il talento e l'intelligenza di uno dei più grandi autori e produttori hollywoodiani.
Da tempo Quentin Tarantino lancia il suo avvertimento: dieci film e stop. In cerca del perfetto mic drop, il regista è ossessionato dall’esito altalenante di tanti grandi che lo hanno preceduto, le cui carriere tendono effettivamente spesso a chiudersi con lavori alimentari, girati col pilota automatico e senza particolare verve. Tra questi, in un Q&A del 2010 organizzato dall’American Cinematheque, Tarantino ci mette anche Howard Hawks, tra i suoi registi del cuore (ovviamente) e autore di capolavori che vanno da una parte all’altra dello spettro del genere hollywoodiano. A riguardo l’affermazione è lapidaria: «I don’t want to make Rio Lobo», riferendosi all’ultimo film di Hawks come a un esempio perfetto di opera tardiva, realizzata da un autore in passato magnifico, innovativo e determinante, ma oggi inevitabilmente sorpassato dai tempi. E in effetti Rio Lobo, western in technicolor in cui Hawks ritrova John Wayne e replica, per la seconda volta dopo El Dorado, gli elementi di assedio e tensione morale del capolavoro Un dollaro d’onore, non si può certo dire che sia una chiusura a effetto. Tuttavia, al netto di dichiarazioni tranchant, il film d’addio di Hawks è un racconto solido che abbraccia i temi cari al regista e offre momenti di grande spettacolo, un film realizzato con scioltezza e un pizzico di stanchezza da chi ha già dato tutto ma che, per esperienza e talento, resta comunque in grado di accomiatarsi in modo più che dignitoso.
Realizzato nel 1970, Rio Lobo giunge negli anni in cui il cinema americano sta cercando, e trovando con successo, nuove strade per sfuggire alla crisi industriale e di pubblico che aveva decretato la fine dello studio system. La New Hollywood è ormai cosa fatta e in piena esplosione, i grandi generi classici vengono rivisitati e riscritti all’insegna della nostalgia o di istanze trasformative che rispecchiano le innovazioni socioculturali del ’68, mettendo in discussione miti e narrazioni tradizionali. In questo contesto altamente mutante Hawks è uno degli ultimi grandi in azione, un nome del passato che porta con sé un senso dello spettacolo e del cinema d’altri tempi, una sicurezza nel potere affabulatorio classico del cinema che è anche, oggi, arrivati a questo punto della storia, una sorta di ingenua speranza, una fiducia riposta in un’impalcatura narrativa che ha perso ormai l’ancoraggio al reale e rischia di farsi pura reminiscenza di stili e di forme.
In questo senso Rio Lobo è un film che non risponde alla sfida del tempo ma la schiva, accontentandosi di evitare gli aspetti più scottanti della tradizione western – come il rapporto con gli indiani e la conquista della frontiera (mitologemi decostruiti proprio in quegli anni) – per rifugiarsi piuttosto sui temi cardine del cinema di Hawks, come l’importanza del lavoro di squadra, l’etica del lavoro, il rapporto sodale e fraterno che unisce persone ugualmente solide e fedeli anche se impegnate su barricate opposte del campo di battaglia. Del resto la guerra civile è solo l’innesco narrativo del racconto, mentre il motore drammatico della storia sta nel disprezzo provato dal colonnello nordista interpretato da Wayne nei confronti non degli avversari sudisti ma di quei nordisti che hanno tradito i loro compagni per avidità e codardia, e che dopo la guerra esercitano il loro nuovo potere attraverso la violenza e la prevaricazione. Ancora una volta per Hawks il conflitto si combatte sul piano etico e morale, e riguarda le scelte che ciascuno fa quando viene posto di fronte alle sue responsabilità, per quanto fatali possano essere. In questo senso il film, che inizia come una grande avventura, perde via via il suo spirito più spettacolare per andare a ripercorrere scene e situazioni di Un dollaro d’onore, di cui diventa effettivamente una replica sbiadita priva di particolare vitalità.
Cinema senile e fuori tempo massimo, quindi? In realtà tutt’altro, perché non possiamo dimenticare che la base di partenza per questo modo di intendere l’immagine, il racconto, il rapporto complesso tra i protagonisti, deriva da un senso del cinema di fulgida attualità, una lucidità di pensiero e immaginazione che permette sempre a Hawks e ai suoi film di farsi esperienze cinematografiche pienamente tali, e che qui si manifesta nella solidità del racconto, nell’autoironia sferzante di Wayne, nel ruolo attivo e determinante affidato a una vasta compagine di personaggi femminili che sempre più trovano spazio e permettono, con la loro presenza e la specificità del loro ruolo, di riscrivere, sottotraccia e un passo alla volta, le coordinate del genere.