Ieri/oggi – Speciale Howard Hawks: Un dollaro d'onore
Emblema della tarda maturità artistica della Hollywood classica e di Hawks, Rio Bravo (1959) è il vertice indiscutibile di un cinema umanista che mette al centro del suo sguardo la lotta umana per un’esistenza libera e fiera.
Riaprendo gli occhi dal nero in cui si sono dissolti i titoli di testa di Rio Bravo (titolo originale di quello che conosciamo in Italia come Un dollaro d’onore), che già avevano reso immediatamente evidente l’ambientazione western e preannunciato le star protagoniste di questo film del 1959 diretto da Howard Hawks, ci troviamo dinanzi alla porta scheggiata di un saloon da cui fa timorosamente ingresso uno scalcinato cowboy con il volto di Dean Martin.
Fermo all’ingresso, l’uomo dà una rapida occhiata alla sala gremita e lentamente, incerto, prende ad avanzare lungo il muro, passandosi più volte la mano sulle labbra con piglio colpevole e dubbioso, fino ad arrivare a una posizione da cui può osservare meglio il bancone del bar. Un altro cowboy dal cappello scuro si sta versando da bere, lo nota nella sua febbrile debolezza (sottolineata ancora una volta dal passaggio delle dita sulla bocca nervosa, ritratta) e dopo avergli fatto un cenno lancia sogghignando una moneta nella sputacchiera lì vicino. Quando l’altro sembra ormai deciso a voler recuperare l’obolo dall’immondo contenitore, un calcio lo allontana e un piano medio dal basso ci restituisce un John Wayne in chiara disapprovazione del povero questuante. Risvegliato improvvisamente nell’orgoglio ferito, il disgraziato si rialza e colpisce con forza il nuovo arrivato, facilmente identificabile come lo sceriffo locale per via della stella sul petto, e vorrebbe vendicarsi dello scherno subito, ma gli uomini del villain lo tengono ben saldo, mentre lui lo riempie di botte. Uno dei presenti cerca di fermare la violenza ma in cambio riceve una pallottola nello stomaco e cade morto al suolo. L’omicida non sembra dar peso alla faccenda e si allontana entrando in un altro saloon dove intende riprendere la bevuta, nuovamente interrotta dallo sceriffo che, ripresi i sensi, lo cerca per arrestarlo. Ma il fuorilegge è ben protetto dai suoi sodali ed è solo grazie all’intervento dell’ubriacone poc’anzi umiliato e desideroso di riscatto se il tutore della legge riesce nel suo intento.
C’è, in questa celebre scena iniziale di Rio Bravo (nota, tra le altre cose, anche perché interamente priva di dialoghi e per questo da molti critici riconducibile a un omaggio del suo autore verso il periodo del muto), già tutto un concentrato densissimo di cinema hawksiano e classico-hollywoodiano. Di cinema tradizionale, avrebbe detto Robin Wood, grande conoscitore del cinema americano e di Howard Hawks, a cui dedicò un’intera, appassionatissima monografia e poi saggi, riflessioni, attestazioni di stima e riverenza, finanche in punto di morte. Non a caso il compianto critico britannico scriveva che se avesse dovuto scegliere un film per giustificare l’esistenza stessa di Hollywood questo sarebbe stato molto probabilmente proprio Rio Bravo. Cosa c’è, infatti, di più hollywoodiano di un film che è allo stesso tempo un western – genere d’eccellenza, per certi versi fondante ed esclusivo, come già diceva Bazin, di quel sistema immaginativo, narrativo, produttivo ch’era appunto Hollywood nel suo periodo d’oro – e il capolavoro tardo, maturo, di un autore che di quella macchina collaudata è riconosciuto da tutti come un esponente esemplare ed eccelso? Per non parlare della direzione attoriale, del montaggio invisibile, caposaldo del modo di rappresentazione istituzionale della Hollywood classica, o dell’archetipicità dei personaggi o ancora, soprattutto, dell’importanza assegnata all’azione drammatica più che alla contemplazione, alla descrizione, allo scandaglio psicologico.
Eppure, per quanto rilevante e significativa possa essere, per capire l’importanza storico-critica di Un dollaro d’onore nel panorama della produzione cinematografica occidentale, questa sua capacità di rappresentare efficacemente la cuspide più canonica e convenzionale di un apparato artistico-produttivo che a livello popolare nel mondo rappresenta il cinema tout-court, essa non ci dice molto sul valore dell’opera in sé (anche The Searchers di John Ford potrebbe tranquillamente rispondere alle caratteristiche appena esposte, e quindi rappresentare l’apoteosi della Hollywood classica e più tradizionale). Per farlo bisogna soffermarsi sugli elementi più personali, più strettamente, inequivocabilmente hawksiani del film, a partire dall’afflato umanista che permea tutta l’opera per finire alla sua straordinaria capacità di gestire i dialoghi e alla commistione tra gli elementi tragici tipici del dramma epico e quelli comici da screwball comedy (introdotti principalmente dai personaggi di Stumpy e Feathers, figura femminile che nella sue interazioni con lo sceriffo John T. Chance non può non ricordare le dinamiche tra Katherine Hepburn e Cary Grant in Susanna!), due macrogeneri in cui il regista americano dimostrò in più occasioni di poter eccellere. A differenza di Ford, infatti, Hawks non è interessato alla Storia o al quadro sociale, ma alla caratterizzazione dei personaggi, alle relazioni tra singoli individui e al coinvolgimento del pubblico. Ed è in questo affrancamento da qualsivoglia vincolo naturalistico, storico o politico, scambiato da alcuni critici dell’epoca (in particolare da Louis Seguin di Positif) per “ottusa semplicità” che Hawks può permettersi di focalizzare il suo sguardo, le sue lenti d’autore, sull’umanità ferita ma fiera che lega in un'unica grande tragedia personaggi e persone, schermo e realtà, Storia e storia.
Ecco allora che l’incipit del film, descritto in apertura, appare ancora più emblematico nel suo mettere in scena, in pochi minuti, il conflitto tra oppressi e oppressori, tra potente e diseredato, il ruolo della legge, l’ineluttabile forza primitiva, pre-sociale, del rispetto di sé e dell’autodefinizione personale. È già tutto lì, nel conflitto iniziale tra Dude e Joe Burdette, tra l’umanità del toro ferito e la spietata, supponente, insolente freddezza del matador (Dean Martin ha accanto a sé, appese alla trave dove è posizionata la sputacchiera, delle corna di bue, mentre Claude Akins ha alle sue spalle, dietro il bancone, il quadro di un toreador), tra la febbricitante, sudata, nervosa umanità ante litteram (così mirabilmente racchiusa nella ripetizione del gesto della mano che passa sulle labbra inquiete, preda del desiderio alcolico e del senso di colpa) e l’ingessata, irridente impersonalità dello status sociale (i Burdette sono ricchi possidenti terrieri) ed etico (il riconoscersi nella parte dei cattivi, dei carnefici).
La vulnerabilità di Dude all’alcol (che viene dallo sfibramento d’una delusione d’amore) non è che la debolezza dell’intero genere umano in stremante lotta con i suoi demoni, una condizione di “caduta”, di rovina, crollo, capitolazione in cui tutti ci siamo, almeno una volta nella vita, trovati. E il suo riscatto, che prende forma e vigore, non a caso, in modo speculare rispetto allo spiacevole cedimento della scena iniziale, sempre in un saloon, con un’altra moneta gettata nella sputacchiera, ma con un esito del tutto diverso, non può che avvenire, pur nel quadro complessivo di un lavoro di squadra, con uno scatto intimo, personale.
Se è vero che lo stesso Hawks pensava di Rio Bravo che fosse essenzialmente una pellicola dedicata al personaggio interpretato da Dean Martin, piuttosto che a quello assegnato a John Wayne, la verità è che la forza del film, la sua potenza e incisività, è data dall’interazione e dalle relazioni che si vengono a creare tra le figure principali del racconto. Va cercata nella volontà organica, mai retorica o calcolata, di mettere in forma narrativa, attraverso la storia del sodalizio tra uno sceriffo votato all’autosufficienza, un ubriacone dalla dubbia affidabilità e un vecchio storpio (cui si aggiungono, man mano, il giovane non più ignavo Colorado, Carlos e Feathers) che si oppongono alla tirannia della violenza fuor di legge, il tema della cooperazione tra esseri umani (e qui si torna alla visione umanista di Hawks), l’amicizia e la fratellanza intese come una forma relazionale basata sul mutuo rispetto, sull’indipendenza e sulla fiducia, sulla lealtà tra uomini liberi, fondata non già sul denaro (i soldi d’oro che Nathan Burdette paga ai suoi sgherri) ma su un naturale senso di responsabilità, di dignità, di giustizia.
Più che alla società intesa come organizzazione, a Hawks interessa la società intesa come condivisione di valori e interessi, come confederazione umana e intersezione di vite libere e fiere, come moto carbonaro a difesa dalla tirannia, dal sopruso. Tutto senza insopportabili toni educativi, com’è tipico della cattiva letteratura o del cattivo cinema, ma attraverso l’abbandono al mistero umano, al dilemma che tiene l’uomo sempre in bilico tra eroismo e codardia, tra giusto e sbagliato, e che si risolve, se può, con il gesto, con l’azione. È questo a rendere Hawks uno dei più grandi uomini di cinema di sempre.