Ieri/oggi - Speciale Howard Hawks: La "Cosa" da un altro mondo
L'horror scifi prodotto da Howard Hawks riflette le paure e il bisogno identitario dell'America maccartista, celebrando la collettività in un'opera speculare al remake di Carpenter.
Com’è noto, i titoli di La “Cosa” da un altro mondo, libero adattamento da un racconto di John W. Campbell, accreditano il montatore Christian Nyby (Acque del sud, Il grande sonno, Il fiume rosso, Il grande cielo) come regista, mentre Howard Hawks appare come suervisore e produttore. Ma al di là dei dubbi, legittimi o meno, che ancora circolano sulla sua effettiva paternità registica, il cult fantascientifico del 1951, - tra i più seminali per il genere -, è tanto un film-contenitore dell’universo hawksiano quanto l’opera che più di tutte, nella filmografia del regista, ruota intorno al concetto di collettività. È essa stessa, a partire dai contenuti e dalle scelte di scrittura, opera collettiva, restituzione in chiave horror sci-fi di quelle paure condivise nell’America post-bellica e maccartista degli anni ’50.
La Minaccia Rossa e dunque i primi effetti della Guerra Fredda, ma anche la diffidenza verso la scienza dopo i tragici eventi di Hiroshima e Nagasaki, incalzano in un’America che proprio intorno all’anno di uscita del film raggiunge l’apice della paranoia, con epurazioni e ostracismi. Proprio perché il nemico potrebbe nascondersi ovunque sotto mentite spoglie (nel 1950 McCarthy aveva parlato di «Enemies from Within», «Nemici dall’interno»), è necessario fare il possibile per rendere quest’ultimo ben riconoscibile. È necessaria una linea netta di demarcazione tra un “noi” (la cavalleria munita di tromba, i difensori dei valori democratici americani) e un “loro” (gli altri venuti “dagli spazi profondi” dell’ideologia sovietica), quella stessa dicotomia su cui si fonda la propaganda statunitense sotto il vessillo ideologico del senatore Joseph McCarthy. Nel film di Nyby e Hawks, non dovrebbe affatto stupire allora la scelta di sostituire l’alieno mutaforma del racconto Who Goes There? di Campbell - che sarebbe apparsa teoricamente come la soluzione più efficace per esprimere la paura di una minaccia interna e pandemica (esattamente come accadrà nel remake del 1982 di Carpenter) -, con un essere dalle fattezze umanoidi, massiccio e di colore verdastro, simile per certi aspetti ai mostri della Universal.
Dunque, dietro alle necessità imposte dallo scarso budget a disposizione - troppo esiguo per trucchi che solo Carpenter, trent’anni dopo, riuscirà a sfoggiare mantenendosi fedele all’estetica lovecraftiana di Campbell -, emerge in filigrana anche il bisogno, richiamato nella retorica del finale, di dare un’immagine chiara, definita e definibile del nemico, intercettando quelle paure imposte e poi condivise nella società dell’epoca. Hawks e Nyby sembrano così non solo restituire il timore diffuso all’epoca verso l’ignoto, ma anche tentare di ritrovare quel senso di unità e ottimismo di cui gli USA avevano sempre più bisogno, quella coesione di fronte al pericolo di fratture interne. Così, nel finale, il giornalista presente alla base artica, dopo l’uccisione della creatura aliena per mano dei militari, può affermare trionfale alla radio che «l’America ha sconfitto il primo nemico proveniente da un altro pianeta».
Le divisioni interne tra essere umani, pur presenti e anzi significative nel film, aprono scenari inquietanti ma vengono anch’esse ricondotte, - a differenza di quanto accadrà invece in Carpenter dove si è nemici in primis di sé stessi -, a gruppi ideologici in lotta tra loro, e dunque confluiscono a loro volta nella logica della demarcazione e del confine, la logica del “noi” e del “loro”. Come è stato notato, è infatti significativa la presenza di un gruppo militare nella base scientifica in cui si svolgono le vicende e il fatto che proprio questi ultimi siano in definitiva gli eroi della situazione, altre differenze rispetto al racconto. All’opposto, la figura dello scienziato disposto a mettere a repentaglio l’umanità per il bene di progresso e conoscenza, soccombe di fronte all’impossibilità di un dialogo con la creatura. Non c’è altra via, il nemico va estirpato con ogni mezzo. Questo però accade solo dopo aver aperto interessanti prospettive, soprattutto per l’epoca, sui limiti dello sviluppo scientifico, salvo però, con involontaria ironia, impiegare proprio i mezzi offerti dallo sviluppo tecnologico per eliminare l’alieno. Altra figura guardata più che con circospezione con evidente ironia è poi il giornalista a cui è affidata la diffusione del messaggio patriottico e identitario del finale, concentrato di stereotipi arrivisti e cinici, lontano dalla complessità riservata invece allo scienziato. Infine, a venire celebrata è dunque il valore della collettività, più che la semplice amicizia virile tipica del cinema di Hawks. Nonostante la presenza di un eroe principale, il capitano Patrick Hendry, granitico nelle sue convinzioni su cosa è giusto fare, è qui l’intero gruppo – aderente a determinati valori – a essere celebrato. La forza militare vince proprio grazie a quella ritrovata forza identitaria, a quella coesione più che ritrovata, si potrebbe dire riconfermata.
Nulla di più distante, dunque, dal capolavoro filosofico e socio-politico di Carpenter che, in un’America decisamente più disillusa, immagina (e mostra) ciò che non può essere mostrato, la minaccia di un pericolo disindividuante e proteiforme, nella disgregazione di una posta collettiva (a partire dal titolo originale, che recita semplicemente La cosa, senza fornire per quest’ultima la più conciliante prospettiva dell’appartenenza a un altro mondo). Eppure il film di Hawks e Nyby ha il merito di avere aperto in modo esemplare e innovativo un filone horror scifi in cui si inscrive lo stesso film del 1982, insieme a titoli come Alien e Il demone sotto la pelle, imperniati attorno all’asse di una minaccia interna in luoghi fisici e mentali claustrofobici, in cui la lotta contro l’invasore esterno diventa ben presto una lotta contro sé stessi. Mirabile in tal senso la capacità di lavorare sugli spazi e sulla tensione crescente, prefigurando già la creatura aliena, mai inquadrata in primo piano e ripresa solo in pochissime scene, come pericolo onnipresente.
Ma appunto, questo è anche un film nutrito della poetica hawksiana. A riconferma della capacità non solo di traghettare da un genere all’altro ma di lavorare sulla commistione di generi all’interno della stessa pellicola, La “Cosa” da un altro mondo è un valzer di generi, precursore nell’unire horror e fantascienza, ma anche di passare dalla screwball comedy (soprattutto nelle schermaglie tra il capitano Patrick e la segretaria Nina, o nelle parentesi comiche affidate al giornalista) al cinema bellico, passando soprattutto per il western in quanto mito fondativo. Ed è su quest’ultimo aspetto che andrebbe posto l’accento per capire quanto dimensione collettiva e componente autoriale si ritrovino ne La “Cosa”. Perché, pur mancando alcuni dei caratteri più esteriori del genere, Hawks recupera qui la vera essenza del western, la sua capacità di emergere come epica americana e dunque crogiolo in cui trovare simboli identitari, immergendolo però nella più problematica contemporaneità, proprio quando di questi simboli e narrazioni collettive l’America sembrava avere più bisogno.