I nostri anni

La recente uscita nelle sale cinematografiche di Ruggine, dopo il suo passaggio alle Giornate degli Autori dell’ultima kermesse veneziana, ci offre lo spunto e ci dà la voglia di porre una lente d’ingrandimento sul lavoro fin qui realizzato da Daniele Gaglianone, uno dei pochi autori ultraindipendenti e ultraunderground della settima arte italica che unisce tematiche sociali forti ad un gusto estetico decisamente di spessore, non ultima una gravitazione – voluta o no – fuori dal circuito mainstream del mondo cinematografico (almeno fino alla collaborazione con la Fandango di Domenico Procacci per la produzione di Ruggine, che oltre ad una visibilità nazionale maggiore gli ha permesso di portare sul set attori del calibro di Filippo Timi, Valerio Mastandrea e Valeria Solarino) che lo pone appieno in una sezione come quella de I Sotterranei. Gaglianone nasce ad Ancona nel 1966 e come molti suoi coetanei di quegli anni emigra al seguito della famiglia nella provincia di Torino, in quel facoltoso e promettente nord che nei primi anni settanta ha visto l’arrivo di molta Italia in cerca di un avvenire migliore, del centro e del sud – dinamica che sarà parte integrante e autobiografica del suo ultimo film sopracitato. Si laurea presso l’Università di Torino in Storia e critica del cinema, muovendo i suoi primi passi nell’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza e sulla scena al fianco di Gianni Amelio per la realizzazione di Così ridevano, Leone d’Oro a Venezia nel 1998. Realizza il suo primo lungometraggio – I nostri anni – nel 2000, cui sono seguiti Nemmeno il destino nel 2003, Pietro nel 2010 e appunto Ruggine, con diverse, preziose, incursioni nel cinema documentario – da recuperare prima possibile Rata Nece Biti sulla guerra nella ex Jugoslavia – e nei cortometraggi di fiction, che meriterebbero solo loro un’ampia e dettagliata analisi. Partiamo quindi dal primo lavoro lungometraggio del regista torinese, I nostri anni, per un dittico analitico che culminerà con il suo secondo Nemmeno il destino e che, si spera, aprirà un varco per meglio capire l’opera del “film maker” marchigiano-piemontese, come ama autodefinirsi Daniele Gaglianone.

“I nostri anni sono passati come una storia che ci è stata raccontata, e il luogo dove accaddero queste cose non ne serberà traccia.” Natalino, Alberto e Silurino, nomi di battaglia partigiana, sono tre amici nei monti della Valchiusella che hanno imbracciato l’artiglieria per combattere e scacciare i nazifascisti che tengono sotto scacco e terrore l’Italia sul finire della seconda guerra mondiale. Di questi tre solo due sopravvivranno a quell’orrore, perché Silurino perirà sotto le torture e il sadismo di un gruppo di repubblichini capitanati da Umberto Passoni, la cui specialità è finire i prigionieri a colpi di calcio di fucile. Al povero Alberto toccherà assistere alla scena acquattato dietro un albero in silenzio, in quanto disarmato e solo. Molti anni più tardi, lo stesso Alberto è ospite in un pensionato per l’estate, dove incontra il capitano Passoni, costretto su una sedia a rotelle da una paralisi. All’inizio Alberto non riconosce il capitano fascista ma poi, via via che i ricordi affiorano, per il partigiano si presenterà l’occasione di vendicarsi grazie anche all’aiuto di Natalino, esule volontario in una piccola casa in montagna. L’impresa fallirà, ma ai due questa ultima goffa azione servirà a far(ci) capire che l’animo partigiano non si è mai sopito.

Il passato e il presente si fondono in questo deflagrante esordio nel lungometraggio, che andò selezionato al fianco addirittura di Straub e Hiullet nella prestigiosa Quinzaine de Réalisateurs di Cannes 2001, la lontana (ma neanche tanto) sorella maggiore delle nostre Giornate degli autori veneziane. Il film, che vinse il Jerusalem Film Festival sempre del 2001, a prima vista potrebbe essere considerato un lavoro a soggetto sui partigiani, ed in parte lo è con tutte le riflessioni del caso, andando a collocarsi in quel prezioso filone filmico di cui fanno parte Il Partigiano Johnny di Guido Chiesa piuttosto che L’uomo che verrà di Giorgio Diritti. Però già in quest’opera prima, di più di dieci anni fa ormai, il tema principale per Gaglianone è funzionale soltanto per farci entrare negli altri fondamentali, sottotemi che sono presenti nel film – questo come tutti gli altri che seguiranno –, dove si scorgono quelle che sono e saranno le tematiche filo conduttrici che stanno più a cuore al cineasta torinese: l’amicizia, la giustizia sociale, il racconto degli ultimi, la solitudine, l’adolescenza, la memoria storica, per uno sguardo sulla società acuto e per niente carezzevole ed ammiccante, come usa fare un certo rassicurante cinema italiano, ed a livello tecnico una voglia di uscire dagli schemi soliti e un po’ stantii di ripresa e messa in scena. E in effetti ne I nostri anni, prodotto dalla Pablofilm di Gianluca Arcopinto con la collaborazione di Tele Più, venduto solo all’estero e mai distribuito in Italia (…), ad uno splendido e malinconico bianco e nero si affianca un modo di girare fuori da ogni canone precostituito, sgranando e sperimentando, zoomando e prendendo fuori fuoco i soggetti per metterli a fuoco pian piano, dal video alla pellicola, dai 16 ai 35 mm. L’uso del montaggio, che diviene linguaggio e stile, che descrive e completa.

L’orchestrazione dei due piani narrativi per flashback scorre fluida quasi ad annullare le distanze delle due epoche protagoniste dei fatti narrati: se non per la differenza di supporto, che ci rende immagini molto aggressive delle battaglie partigiane, quasi non ci si accorge di quando è filmato cosa. E questo è un ingrediente che ricorre spesso nel cinema del regista torinese, assieme crediamo alla voglia di affermare a piena voce la sua indipendenza autoriale, in una veicolazione artistica della rabbia per essere tenuto ingiustamente ai margini del mondo del cinema, lui e la sua superba macchina operativa underground contornata da più o meno le stesse persone in campo tecnico e artistico.

E’ come se ad ogni straniante inizio dei suoi film, Gaglianone consegnasse allo spettatore degli occhiali speciali con cui lo avverte che quello che andrà a vedere trasborda dai confini di quella visione filmica classica cui ci hanno abituato negli ultimi anni, e sarà lui, lo spettatore, a doverci mettere del suo per completarla questa visione, riempiendo quegli spazi e quei silenzi disseminati qua e là nel narrato. Lo spazio filmico in cui accade la storia assume un carattere di forte connotazione personale, forse qui, a differenza degli altri lavori, meno riconoscibile, in quanto il luogo dove è ambientato il film fu realmente teatro di feroci battaglie partigiane. Quest’aspetto, per niente di secondo piano, gli (ci) permette di concentrarsi prettamente sulla storia dei personaggi, avendo la sensazione che quella storia lì potrebbe avvenire a qualsiasi latitudine, a differenza di molte pellicole che sembrano delle cartoline su commissione dell’ente turistico della città in cui sono girate e che distraggono dal narrato. Di fronte al nitore e alla profondità di quest’opera d’esordio, dove la sostanza e la forma si fondono in un tutt’uno che arriva agli occhi e al cuore dritto come un treno, non ci si può che abbandonare, affidandosi in tutto e per tutto il tempo alla potenza narrativa del filmaker piemontese, in cui nella seconda parte la drammaticità lascia il posto ad uno stilema da commedia, dove i personaggi pian piano si fanno persone e ciò che rimane alla fine non è che un grido: ”partigiano portami via…”

Autore: Fabio Ernetti
Pubblicato il 02/03/2015

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