Eccoci, come promesso, con la seconda e ultima puntata del dittico dedicato a Daniele Gaglianone, che ha raccontato dei due lavori che hanno visto il regista presentarsi al grande pubblico e alla critica di tutto il mondo. La scorsa settimana ci eravamo occupati di uno dei più bei film dell’inizio del decennio appena terminato, quel I nostri anni che fece del racconto sulla Resistenza in montagna una narrazione colma di umanità e di forte amicizia. E non è da meno la storia che il filmaker piemontese ci presenta in Nemmeno il destino, forte di una squisita libertà autoriale che instilla in ogni singolo fotogramma dell’opera.
Della trama. Tony, Ale e Ferdi sono tre amici (guarda caso tre come gli amici partigiani de I nostri anni), che (non) vivono i loro 17 anni tra (noiosissima) scuola, le gite al fiume e le loro famiglie disgregate. Hanno dalla loro un futuro che è lì in attesa di essere impugnato, ma anche una condizione sociale fortemente degradata che li pone su un piano molto sdrucciolevole, tra genitori malati terminali alcolizzati e assenti. Le loro esistenze cambieranno per sempre quando Tony decide di andare via da quel posto e di non tornare mai più. Da lì in poi il film vira in un vortice emozionale che finirà amaro, mostrando come a certi livelli sociali nemmeno il destino ci può salvare.
Della tecnica. In quest’opera tutto inizia straniante con un “fermo macchina” – cioè quel processo per cui in una ripresa la pellicola viene bruciata in testa e in coda così da prendere più luce, girando meno velocemente in quanto frenata, la luce che è dosata per una velocità maggiore brucia la pellicola stessa. Si ha quindi il risultato di una sparizione vera e propria, e questo senso di vuoto accompagnerà lo spettatore per tutta la visione. Virtuosismo puro. Man mano che il film avanza, si avverte sempre di più quello che Gaglianone andrà a riempire con un uso del montaggio sapiente ed emozionale, creando un doppio registro in cui leggere il film.
Della malinconia. Non si può non definire Nemmeno il destino un film malinconico, ma di quella malinconia non gratuita, che in ognuno di noi si presenta col finire dell’età dei giochi, in cui si è immersi in un eterno presente, e il passaggio all’età cosiddetta adulta, ma che di adulto ha ben poco, visto le scarse possibilità di riuscita che si hanno a certi strati sociali. Si avverte ciò quando, dalla sparizione dalla scena di Tony in poi, Ale e Ferdi iniziano ad imitare il loro amico nel suo classico tormentone: “Vado io”. Ed è un imitazione che si fa presto ricordo e altrettanto velocemente malinconia. Non possono rimediare a questo sentimento, perché non possono rinunciare al fatto stesso di crescere. È come se avvertissero che una promessa fosse stata tradita, la promessa di un avvenire raggiante e privo di ostacoli, in cui nel quadro delle loro esistenze i tre soggetti avrebbero riempito sempre lo spazio, gli uni accanto agli altri.
Delle famiglia. I protagonisti dei film di Gaglianone vivono sempre, o quasi, in famiglie di periferie di città post-industriali, esempi di un’Italia che non c’è più, che nei tardo anni sessanta e settanta ha visto il boom di lavoro e benessere, e che ha lasciato dietro di sé solo degrado e malattia. Il padre di Ferdi è un ex-operaio malato di cancro terminale, che passa le sue giornate ingollando litri e litri di rosso scadente, e per questo motivo di vergogna per il figlio che non sa come affrontare una situazione più grande di lui. Ale è preda della madre sull’orlo di un esaurimento nervoso, vittima di un sopruso subito in giovane età da cui è nato il figlio. Mentre di Tony non si sa molto: ha più o meno la stessa geografia familiare dei suoi amici. Non crediamo ci sia niente di autobiografico nella scelta di mettere in scena tali famiglie, crediamo piuttosto sia una forte metafora di “famiglia=Stato”, che invece di proteggere e formare degnamente i suoi figli è distratta e assente, latitante e discriminante, lasciando questi ragazzi al proprio destino, assente nella maggior parte dei casi.
Dell’amicizia (o delle cose che non ritornano). Pochi autori italiani, secondo chi scrive, hanno saputo mostrare così lucidamente l’aspetto psicologico dell’amicizia come Daniele Gaglianone. Un aspetto che scava a fondo dentro i caratteri dei personaggi, per restituirci quel senso di inadeguatezza nei confronti della vita, che è un po’ parte di tutti noi e che difficilmente troviamo narrato in molte pellicole che ci vengono proposte. Una inadeguatezza per una vita non all’altezza delle aspettative che fa sbandare a volte, e che sfocia nel caso dei tre giovani protagonisti di Nemmeno il destino in una rabbia che deve in qualche modo farsi gesto concreto, pena la vita. Una vita che non permette di fare progetti a lungo termine (non è su questo che nelle piazze di mezzo mondo si stanno battendo, black block a parte), che ci sposta il traguardo sempre più lontano, che fa dell’amicizia un luogo virtuale in cui i social network si sono sostituiti al campetto e al caffè e che ci fanno sentire sempre più distanti gli uni dagli altri.
Della fabbrica. Un autore come Gaglianone, per la sua estrazione culturale e la crescita in una città come Torino, non poteva non confrontarsi con la fabbrica. Luogo, obbligato, di formazione e di socializzazione per una determinata classe sociale. Un luogo cui il lavoratore devoto si dà passando la maggior parte della sua vita a contatto con macchine roventi e turni massacranti, che lasciano poco spazio agli affetti e agli interessi che un individuo naturalmente sviluppa durante il corso della propria vita. Nel cinema del filmaker piemontese tutto questo ci viene restituito sotto forma di famiglie inadeguate, che non sono in grado di badare ai loro cari. Ma per quanto scritto sopra, incolpevoli, vittime anzi, di una realtà economica sempre più affamata di profitto e digiuna di diritti e parità salariale.
In ultima analisi, quindi, ci piace – e molto – il concetto di cinema espresso dall’autore piemontese, e I nostri anni e Nemmeno il destino non ne sono che un esergo. Un cinema che antepone le idee al budget, peraltro come scelta obbligata e non vagliata. Un cinema che racconta con molta onestà intellettuale i diversi anfratti invisibili che si annidano tra i diversi strati sociali, scegliendo quasi sempre gli ultimi, quel sottoproletariato materia di molto cinema e molta letteratura d’antan che oggi sempre essere scomparso, in nome di un edonismo imbonitore e rassicurante. Quindi cinema sociale si direbbe, e mai come adesso necessario portatore sano di argomentazioni non per forza ideologiche, ma istruttive all’uso, convinti come siamo che accomodarsi in poltrona per un paio d’ore nel fine settimana in quel buio magico di città o di provincia non può e non deve essere occasione persa per una riflessione, non debba soltanto essere intrattenimento fine a se stesso, non debba scadere nella volgare fracassona e bislacca commedia italiana di cui sono piene le sale di proiezione odierne. Ma torni ad essere spunto di dibattito e materia d’interrogazione personale e collettiva, oggi più che mai, con la sparizione di una formazione culturale adeguata e con i ripetuti tagli la settore, si avverte la necessità di acquisire più strumenti e spunti possibili per interpretare la metamorfosi in atto. E il cinema, crediamo – e Gaglianone in testa – questi mezzi può e deve fornirli.