Il cavallo di Torino
L’autore, per parlare della fine del (suo) cinema, riporta la scansione biblica in sei atti, trasformando il racconto della creazione in un racconto di distruzione, di fine, di annientamento.

È stata la Berlinale del 2011 il palcoscenico della cavalcata (e questa volta è proprio il caso di dirlo) finale del cinema di Bela Tarr, il quale già tempo prima della presentazione ufficiale del film annunciò la fine del suo lavoro da regista, quasi fosse una missione da portare a termine, un viaggio orientato con un punto d’inizio e un punto di fine. Ecco, con questo film il cinema dell’autore ungherese termina – quantunque se si rimangiasse la parola data non sarebbero però in molti a dispiacersene – e questo non può non far riflettere sull’intero percorso e sul coefficiente di ultimità contenuto nel suo lavoro (a tutti gli effetti) definitivo. A Berlino, in maniera abbastanza prevedibile ma quanto mai necessaria gli diedero l’Orso d’argento, riconoscimento che quantomeno ha contribuito a dare al maestro ungherese un minimo di notorietà in più rispetto al passato.
Non si può parlare del Cavallo di Torino senza pensarlo all’interno dell’intera opera di Tarr, sia per via di una coerenza estetica quasi stoica sia per il ruolo conclusivo che ricopre. In questo senso la parola fine possiede qualità anche riepilogative, sistematizzanti, più di quanto accadeva in precedenza. Tarr porta avanti come in passato e ancora più che in passato un’idea di cinema estrema, declinandola attraverso uno stile altrettanto esasperato, unico dal punto di vista dell’originalità e al di là di ogni orizzonte per quanto concerne la sperimentazione. Il cavallo di Torino porta in alto il testimone di un cinema ostinatamente moderno, che guarda ai maestri che tra gli anni Cinquanta e Settanta hanno segnato un’estetica tutta europea e la porta avanti senza la paura di essere anacronistico. Guardando a quella stagione Tarr non imita ma re-inventa, ri-pensa, batte i piedi a terra e si spinge dove molti altri non hanno neanche immaginato di arrivare, facendo qualcosa di completamente diverso sia dagli ultimi film dei grandi monumenti europei (Anghelopulos in primis), sia rispetto ai pur notevoli ma nostalgici inseguitori in affanno di una modernità ormai perduta (Garrel). Quello di Tarr è un cinema che rifiuta categoricamente il postmoderno, avviandosi verso un anacronismo “di resistenza” che piantando le radici nel passato salta a piedi pari il presente proiettandosi con tenacia e sperimentazione in un futuro ignoto a (quasi) chiunque.
Dopo un prologo leggermente scollato dal resto Il cavallo di Torino entra nel pieno dell’azione, o sarebbe meglio dire del racconto, aggredendo lo spettatore con una serie estremamente limitata di figure, ambienti e comportamenti che si impara ben presto a conoscere a menadito. Non c’è finzione, non c’è evoluzione drammatica, ma solo un’idea di cinema del reale che si traduce in una visione estetica completamente nuova, come un Rossellini del futuro, che però si situa nel cuore dell’Europa, in un’Ungheria totalmente fuori dal tempo, o forse proiettata in un tempo futuro, dove il rapporto tra uomo e natura vive di equilibri profondamente diversi. Si ha così a che fare con una casa, un uomo, una donna, un cavallo e una stalla che fanno da pietra angolare dello spazio disegnato dal regista, anche questa volta vero pittore per immagini. Ai loro lati e in generale all’esterno, la natura, in tutta la sua violenta indifferenza, in tutta la sua indomabile arroganza e con tutta la sua immaginabile potenza di fuoco. Un fuori selvaggio, che nel suo mostrarsi così brutale e al contempo innocente, funge anche da riflessione sul rapporto tra l’uomo e il suo presente, dunque anche sulla sua storia. In questo senso nell’intera produzione dell’autore, specie nell’ultima fase, non vi è mai una resa, mai un accomodamento nei confronti di un futuro più dolce o più docile nei confronti dell’essere umano; si tratta di un cinema mai restio a contemplare fino all’ultimo il concetto di fine, dell’uomo e della sua storia, fino ad arrivare alla definitiva apocalisse, che in questo caso è una crisi naturale, una catastrofe ottica, dove l’occhio umano non può più nulla e dove fermandosi l’occhio si ferma anche il cinema.
Attraverso immagini mai così pittoriche, Bela Tarr si fa poeta del disfacimento dell’essere umano, sia nella sua dimensione individuale, che come specie vivente e in quanto tale precaria. Il ragionamento assume forme di rarissima profondità, mettendo in relazione la distruzione del fisico a quella della mente, fino ad arrivare a una riflessione intrinsecamente filosofica, che in questo definitivo lungometraggio prende le forme e le modalità processuali della coazione a ripetere, di una ciclicità asfittica che nel girare a vuoto racconta e contemporaneamente si racconta. Il modello di riferimento è altissimo, sin da subito, quando in quello straordinario prologo viene citato un Nietzsche – eletto a simbolo della civiltà occidentale – messo in crisi da una follia improvvisa che lo ha portato via per sempre dalla ragione; una insanità mentale forse causata dall’incontro con un cavallo alle porte di Torino e quindi, per sineddoche, dall’incontro con la natura, forse per troppo tempo dimenticata e resa sconosciuta.
Detto della portata della riflessione e del metodo con cui questa è sviluppata e portata a termine, non si può non sottolineare come il cuore e il collante sia estetico che tematico del pensiero artistico dell’autore, sintetizzato e amplificato alla perfezione dal suo ultimo film, sia il tempo, con tutti gli interrogativi che si porta dietro. Cos’è il tempo al cinema? Questa la domanda cruciale che si fa Tarr, che prosegue poi tentando di trovare un modo per rappresentarlo, descriverlo e infine dipingerne gli effetti, sino agli esiti ultimi. Nonostante la lunghezza ipnotica di Satantango, per molti il suo capolavoro (ha senso parlare di vertice in una filmografia così radicalmente sperimentale?), Il cavallo di Torino con la scarnificazione totale che opera nei confronti di azioni e personaggi, è il lavoro che porta maggiormente in là la riflessione su un’idea di tempo il più possibile corporea, materica, che al termine del fluviale scorrere della pellicola fa sentire la sua mancanza, la sua incolmabile assenza. Proprio il parallelo con Satantango punta i riflettori sui drammatici esiti della ricerca di Tarr, che nel suo ultimo lavoro racconta l’apocalisse assoluta, la fine ultima dell’atto del guardare, alla quale consegue la fine della storia tutta, passando attraverso la scelta di non avere più nulla a che fare col prossimo alludendo non troppo velatamente al suicidio come soluzione preferenziale, metaforizzata dal suicidio del suo stesso cinema, ammazzato, troncato, abortito nel momento di massimo vigore creativo.
Ciò che resiste alla furia della natura non può che essere la natura stessa (seppur non vista dal fallace occhio umano), sintetizzata dall’unico stoico albero che continua a a stare in piedi, come se fosse lì da sempre. L’autore, per parlare della fine del (suo) cinema, riporta la scansione biblica in sei atti, trasformando il racconto della creazione in un racconto di distruzione, di fine, di annientamento, questa volta, purtroppo, definitivo.