Le armonie di Werckmeister

In un paesino ungherese arriva, una notte, una sorta di strano circo la cui unica attrazione è un’enorme balena impagliata chiusa in un grande camion. La presenza dell’animale sembra subito portare con sé un’aura misteriosa d’inquietudine e angoscia che mano a mano contagia tutti gli abitanti. Il giovane Janòs è l’unico a vedere, nel grande cetaceo dai piccoli occhi immobili, una manifestazione imponente e bizzarra, ma per nulla spaventosa, della bellezza del creato. E’ a questo personaggio che il regista ungherese Béla Tarr affida il ruolo di testimone – perplesso e impotente – di una degenerazione collettiva che irreversibilmente prende forma, trascinando tutti in una folle violenza distruttiva. In maniera silente ma inarrestabile si diffondono nel villaggio un sospetto e un timore generalizzati, di cui l’animale imbalsamato e imprigionato diviene inspiegabilmente l’elemento catalizzatore. Pubblicizzata a grandi lettere sui manifesti che annunciano l’arrivo del circo c’è anche un’altra “meraviglia della natura”: si tratta del “Principe”, di cui una folla muta e diffidente attende invano l’apparizione pubblica nella piazza principale. Di lui non è dato sapere nulla neppure allo spettatore (è un uomo deforme?, un nano?) ma le sue parole profetiche sono emblematiche del senso ultimo del film: “chi ha paura non sa nulla”. E’ proprio la paura che come una cappa scura pesa sul villaggio, e che finirà per accecare tutti, trascinandoli in un vortice di autodistruzione.

Riflessione dagli echi filosofici, favola morale misteriosa e apocalittica, Le armonie di Werckmeister è un film fatto di allusioni e metafore, sintetizzate da immagini potenti ed espressive. Opera ermetica e lirica, suggerisce, rispetto all’agire umano, una visione profondamente segnata da un senso di sfiducia e disillusione. La balena è immensa e mostruosa, è un elemento di forte alterità che incrina inevitabilmente l’equilibrio di un microcosmo. Appartiene a un altro mondo, quello degli abissi, così lontano dalla pianura ungherese in cui ora è impietosamente esposta agli sguardi di tutti. E’ un altro irriducibile e, come già detto, mostruoso: il confronto con esso si risolve, per forza di cose, in uno scontro. Ma l’immagine suggestiva di questa gigantesca creatura vinta e imprigionata è anche quella della trionfo dell’uomo (armato e civilizzato) sulla natura e sull’istinto. La brutalità appartiene, entro questo orizzonte, prettamente all’uomo, e non alla natura che insieme al cetaceo viene, simbolicamente, assoggettata e domata. Mentre l’animale se ne sta immobile e inerme, la mole imponente del corpo costretta tra le pareti anguste del camion, l’uomo incendia e distrugge tutto ciò che lo circonda. Solo gli occhi di Janòs non hanno ancora perso la dolcezza, e girano attorno alla bestia impagliata pieni di innocenza e stupore, senza cadere preda di pericolosi fantasmi né di nefaste allucinazioni. Del resto il film si apre con il tentativo, da parte del ragazzo, di opporre la conoscenza e l’armonia all’ignoranza e alla paura: in una squallida osteria che pare situata ai confini del mondo, Janòs fa mimare a uomini rudi e consumati dalla fatica il movimento dei pianeti nel cielo durante un’eclissi di sole. Una strana danza per vincere il timore di ciò che pare inconoscibile e pericoloso e invece è solo un meraviglioso fenomeno naturale.

Ma nella visione del regista sono gli istinti umani peggiori a prendere il sopravvento. Basta la sconcertante sequenza della distruzione dell’ospedale a rendere lampante questo suo sentire: una folla compatta e, ancora una volta, muta, marcia verso qualcosa che lo spettatore ancora non vede. Come ipnotizzati, incapaci di pensiero e parola e sordi alla realtà, muniti di spranghe e bastoni questi uomini avanzano nella notte. Non un suono disturba quello ritmato e monotono dei loro passi. Giunti all’ospedale, fanno irruzione nelle stanze distruggendo mobili e oggetti e scaraventando fuori dai letti i pazienti malati e indifesi. Sull’immagine di un vecchio nudo e terrorizzato, in piedi in una vasca da bagno, iniziano le note di una musica di rara bellezza e la barbarie finalmente cessa. Quasi come zombie, gli uomini se ne vanno a passi lenti dall’edificio: è una processione di ombre, spiata dagli occhi sconvolti di Janòs, nascosto dietro un muro.

L’insensatezza del male, l’assurdità e la gratuità della violenza, la lotta assurda dell’uomo contro il proprio simile, sono tutti in questa perfetta sequenza: asciutta, solida e coerente quanto cruda e scioccante. Viene quasi da pensare all’Haneke de Il nastro bianco, in cui – come accade qui – viene condotta una raggelante radiografia dell’agire umano verso la degenerazione a partire da un microcosmo chiuso in se stesso (il villaggio), con un bianco e nero che contribuisce – in entrambi i film – a sottrarre l’azione a un tempo determinato per renderla ancor più universale.

Antinarrativo e visionario, Béla Tarr è uno dei cineasti contemporanei più originali e raffinati dal punto di vista stilistico. E’ un poeta della luce, che rifiuta il colore per immergere tutto nella limpidezza contrastata del bianco e nero. Estremo nei contenuti come nella forma, compone il suo film di piani sequenza lenti e lunghissimi, che costituiscono oramai il suo marchio di fabbrica. Pochissime le inquadrature, trentanove in tutto, per un film piuttosto lungo, circa 145 minuti: la narrazione si sfrangia e il tempo si dilata in maniera esasperata, la macchina da presa galleggia tra gli oggetti e le persone, seguendo i passi dei protagonisti, spesso posizionata alle loro spalle. Le atmosfere rarefatte e a volte spettrali sono interrotte solo qua e là da brani musicali che saturano all’improvviso le immagini in maniera netta e decisa, per poi abbandonarle di nuovo a nebbiosi, pesanti silenzi.

Il film è tratto da un racconto di Laszlo Krasznahorkai (Az ellenállás melankóliája - La malinconia della resistenza, 1989), come anche i precedenti lungometraggi Kárhozat (1988) e Sátantángo (1994). Il titolo apparentemente misterioso rimanda ad Andreas Werckmeister, teorico della musica e organista tedesco vissuto nel Seicento. Al suo studio sul sistema armonico fa riferimento il personaggio di Eszter, pianista amico di Janòs. A lui è affidata l’ultima sequenza del film, tra le più riuscite e coinvolgenti nel suo tono surreale. Dopo il caos e la devastazione, la piazza del villaggio è deserta e al suo centro, tra lamiere del camion distrutto, campeggia la balena, gigantesca creatura marina arenata sulla terra. E’ un relitto, un sogno spezzato, il segno di un fallimento? La scena ha la potenza di un’epifania magica, accentuata dalla musica suggestiva di Mihaly Vig. Eszter, sagoma nera nel grigiore della piazza, si avvicina lentamente, fino a guardare nel suo occhio cieco. Quando si allontana, la nebbia avvolge l’animale fino a confonderne il profilo sullo sfondo dei palazzi. Un epilogo che forse vale da solo la visione del film, che resta una delle pellicole più rappresentative della cupa, fascinosa poetica e del ricercato e personalissimo stile di Béla Tarr.

Autore: Arianna Pagliara
Pubblicato il 18/02/2015

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