Per le sale italiane, il secondo e il terzo lungometraggio del regista norvegese Kristoffer Borgli sono arrivati a un mese di distanza, restituendo agli spettatori l’idea che questo nuovo autore - sconosciuto a molti fino a poco prima - fosse una tra le poche leve emergenti in grado di ritagliarsi un posto consolidato nel panorama cinematografico mondiale in pochissimo tempo. Nonostante il fatto che Sick of Myself abbia dovuto lottare prima di ottenere una distribuzione ampia - era stato presentato nella sezione Un Certain Regard al Festival del Cinema di Cannes nel maggio 2022 - e che il contrario sia invece accaduto con Dream Scenario, arrivato subito nelle sale grazie alla spinta di A24, è come se, per casualità di programmazione, la distribuzione italiana avesse riportato il legame tra i due film al loro stato primordiale: il regista, infatti, li ha scritti entrambi nello stesso periodo, e non avrebbe mai immaginato che da lì a poco lo avrebbero reso uno degli autori più chiacchierati dell’industria.
Ma chi è Kristoffer Borgli? Nato nel 1985 a Oslo, la vita del regista segue la parabola di molti altri che come lui hanno lasciato l’Europa per inserirsi - lottando con le delusioni, la competizione e la bassa autostima - nel clima delle produzioni di Los Angeles che, in molti casi, è ancora l’unico vero trampolino di lancio per raggiungere un pubblico internazionale, creare connessioni e ricevere finanziamenti ingenti. Tra le strade affollate e le luci sgargianti di Los Angeles, però, Borgli non è arrivato solo con l’idea del lungometraggio che lo avrebbe consacrato; alle sue spalle aveva Drib (2017), uno strano film dove documentario e finzione si mescolano continuamente per raccontare la storia di un finto “caso mediatico” relativo a uno YouTuber impegnato a aizzare risse con sconosciuti per strada (proprio come nel celebre film mai realizzato da Harmony Korine, Fight Harm). È proprio quando il finto YouTuber - che mette in scena le risse senza parteciparvi davvero - viene contattato da un famosa marca di bevande effervescenti americana che lo vuole come volto dell’azienda, che Borgli comincia a seguire il feedback di realtà e finzione che si snoda attorno alla faccenda. Con Drib, due corti e una serie di video musicali nel suo portfolio, il regista norvegese aveva in realtà già messo al mondo il germe di una poetica che sarebbe rimasta coerente fino all’incontro con A24 e alla fama mondiale: una poetica messa a punto, particolarmente, nei sei cortometraggi realizzati a Los Angeles prima del rilascio di Sick of Myself nel 2022.
Chi non ha familiarità con i leitmotiv dell’opera di Borgli ben prima della commedia nera sulla giovane Signe, che si deturpa pur di essere notata, non sa infatti che la quantità di film in cui il regista non appare anche come attore è minore rispetto a quella dei film in cui il regista presta il suo volto all’obiettivo per assumere il ruolo da protagonista. Eppure, il fattore più sorprendente rivelato da un’analisi della produzione dei suo cortometraggi, ha a che vedere con la sua divisione in blocchi tematici. Seppur con linee di contorno non troppo nette, - ma significative - il cinema di Borgli sembra aver attraversato due fasi cruciali: la prima, a cui si riferiscono lavori come A Place We Call Reality (2018) It’s not a phase (2019), The Loser (2019), The Altruist (2020) ha come nucleo tematico la sensazione di arresa e il perpetuo timore di sentirsi un perdente attorno a un mondo che continua a muoversi in modo rapido - e famelico - fino ad alimentare delusioni e ossessioni, soprattutto indirizzate verso la fama e il riconoscimento. In A Place We Call Reality, che coincide con il periodo di spostamento tra l’Europa e gli Stati Uniti, il regista risponde alla chiamata della rivista Dazed girando un cortometraggio sul suo stesso spaesamento una volta arrivato nella giungla di LA, e con il budget datogli per il film, paga il viaggio e le spese a uno strano guru rintracciato sul web che assume il ruolo di sua guida spirituale. It’s not a phase è un finto documentario su un fan die-hard di una band fittizia (di cui il frontman è interpretato da Borgli), che raggiunge l’estasi solo nel momento in cui riesce a introdursi furtivamente nella casa del suo idolo ed essere quindi finalmente notato.
Sulla scia del finto documentario si muove anche The Loser, dove lo stesso Borgli, che interpreta sé stesso, si rende conto di non avere abbastanza stoffa o carisma per condurre un’intervista con il grande scrittore David Shields. The Altruist - forse il più significativo tra tutti i corti di questa fase - vede il regista interpretare nuovamente sé stesso mentre, durante la quarantena, chiama ognuno dei suoi conoscenti divorato dalla paura che gli altri si stiano magari incontrandosi e divertendosi alle sue spalle. La FOMO (Fear of missing out), la paura di non essere abbastanza, la sensazione di sentirsi esclusi e di non avere nulla da offrire, sono gli elementi cardine della fase che nella vita di Borgli coincide con l’arrivo in America e lo scoppio della pandemia. Di qui, al senso di disperazione che accomuna e attraversa questo gruppo di lavori, segue una seconda fase , volta a esaminare tutto ciò che si è disposti a fare pur di non esserlo. Un approccio che pare ravvivare le suggestioni di Drib, e che corrisponde all’osservazione dei meccanismi della scintillante industria di LA, dove finanche l’ultimo detrito di umanità viene ingurgitato, sminuzzato e parcellizzato dalle regole della fama, dei soldi e da un modo di pensare corporate. È qui che il cinema di Borgli comincia a parlare dell’estenuante tentativo di emergere in un’epoca iper competitiva in cui l’attenzione è poca e i metodi per attirarla sempre più sconvolgenti. A questa fase corrispondono Former Cult Member Hears Music For The First Time (2020), EER (2021) e Filmmaker Gets Shot Suring Interview (2023), quest’ultimo rilasciato subito dopo Sick of Myself. Former Cult Member è una satira oscura su cosa accade quando le fragilità e l’innocenza altrui si scontrano con lo spietato mondo dei riflettori di LA, raccontato grazie alle vicende di una troupe intenta a filmare il primo incontro con la musica di una ragazza nata e cresciuta in una setta dove udire qualsiasi melodia era vietato. EER, figlio diretto degli studi per Sick of Myself, riflette invece sulle contraddizioni del sistema sanitario americano, e prende spunto dal fatto che lo stesso regista abbia dovuto dar prova di lavorare negli States per poter ricevere l’assicurazione sanitaria lontano dalla Norvegia. Ispirato all’episodio celebre di cui il regista Werner Herzog è stato protagonista nel 2006, Filmmaker Gets Shot vede il regista vittima di proiettili sparati anonimamente durante un’intervista per presentare il suo nuovo film in sala, e preme sul comico espediente di voler continuare l’intervista nonostante il sangue sgorghi e i colpi continuino a ferire.
«Sono sempre stato interessato dal fatto che una persona che pare avere già tutto dalla vita, finisce spesso per rendersi miserabile concentrandosi sulle cose sbagliate», ha detto il regista durante un’intervista. E in un panorama in cui tutti sembrano vivere la versione migliore delle loro vite e la possibile fama è lontana solo un click, i film di Borgli riflettono, puntualmente, sulle dinamiche sociali che si snodano fuori dal grande schermo: la dimensione performativa del dolore sui social media, la corsa alla fama, l’annichilimento di ogni caratteristica umana sostituita dalla sua rappresentazione, l’olimpo degli influencer e dei contenuti virali, chiamati in causa nonostante gli schermi degli smartphone non appaiano mai nei suoi film. L’operazione di Borgli non è didascalica, ma conta invece sullo spettatore e sulla sua capacità di riempire gli spazi mancanti di una narrazione contemporanea che non mira dritto alle sue cause, ma le sviscera fino allo sfinimento.
Il cinema di Borgli non parla di internet e di social media, ma degli impeti umani che li hanno resi quello che sono. Come succedeva per Michael Haneke, - che come nessun altro ha sviscerato l’ontologia dei nuovi media - i testi filmici non si nutrono tanto della loro trama, quanto del modo in cui lo spettatore si relaziona a essi — perché il modo più sincero di parlare dei media è parlare di chi li fruisce. L’operazione di Borgli è di ribaltamento: ricordare che le nuove tecnologie hanno solo esaltato alcune dinamiche umane, ma di certo non le hanno inventate. Se internet è la digitalizzazione dell’inconscio collettivo junghiano, è anche vero che questo è dettato da dinamiche di potere, algoritmi e bolle, e non è un caso che siano proprio i sogni a essere i protagonisti del più recente Dream Scenario (2023). Come salvare quei pochi brandelli di sincerità non raggiunti dalle fauci dell’exploitation capitalista? Probabilmente non c’è soluzione, e le aziende potrebbero aver già preso di mira persino la dimensione onirica. Del resto è proprio A24, che di quella trasformazione della cultura in gadget, merchandising e lustrini è a capo, a produrre un corto rilasciato negli ultimi giorni del 2023 dove il regista viene intervistato mentre sogna. Dream Scenario, però, dà inizio a una nuova fase che si apre con un nuovo quesito già suggerito dalle ultime scene di Sick of Myself: cosa succederebbe se, una volta raggiunta l’agognata fama, ci si rendesse conto che è esattamente l’opposto di ciò che si voleva?
Se grazie a una vasta produzione di cortometraggi è già possibile un’ampia operazione di politique des auteurs per il regista appena presentato al grande pubblico, meno efficace sarebbe limitarsi ad attribuire un mucchio di parole chiave alla sua poetica, che si snoda invece come un un dialogo in cui regista controbatte, risponde a sé stesso, introduce domande laterali, si contraddice come principio irremovibile. Un movimento costante, in cui ciò che resta è l’importanza di un testo filmico in relazione all’anno della sua realizzazione, e il fatto che un’opera come Sick of Myself sia stato in sala mentre al telegiornale passava la notizia di una donna che aveva finto di deturparsi il viso con un enorme tatuaggio sulla fronte, rivelatosi nient’altro che una bufala per raggiungere la fama su TikTok.
Accettare di dedicare il proprio estro artistico allo studio dei meccanismi che regolano i (nuovi?) media vuol dire confrontarsi con la primordialità dell’inconscio umano, che non ha età e resterà invariato anche quando ogni nuova tecnologia verrà spazzata da un’altra ancora più nuova; vuol dire analizzare un chiasso straniante, confuso e opprimente, mettendo la testa fuori e osservando con un po’ di distanza qualcosa da cui sembra impossibile non lasciarsi travolgere. Muoversi nel paesaggio dei media contemporanei con occhio critico prevede la messa in prospettiva di un fracasso assordante, e prevede l’accettazione del fatto che tutto sia già in procinto di svanire, di essere sostituito e trasformato in nient’altro che cenere. Perché come suggerito dallo stesso Borgli nel corto Willem Dafoe (2023), tra gli ultimi da lui realizzati, a cosa serve raggiungere lo stato di icona se le persone non riescono neanche a ricordare il tuo nome?