Il diritto di uccidere
Gavin Hood sfrutta la guerra dei droni e lancia il suo occhio nel cielo per raccontarci le tragiche conseguenze di una scelta difficile.
Nel mondo della guerra moderna e asimmetrica, dei conflitti a distanza e a bassa intensità, del peacekeeping e dei droni assassini, della copertura legale e del calcolo dei danni collaterali, agli uomini seduti attorno ai tavoli di potere la verità brutale della distruzione appare per vie traverse, in una selva di schermi ubiqui. Li raggiunge ovunque, in ogni momento, ad ogni ora. Mentre siedono comodi mangiucchiando biscotti e trangugiando caffè o soffrono tra gli spasmi di una cattiva digestione, mentre attendono con ansia nel buio di un bunker o piangono tremanti col dito sul grilletto. Li raggiunge, li inquieta, li smuove nell’animo, ma non per questo riesce a ristabilire un rapporto equo tra loro e la realtà. Resta uno scarto tra la percezione del dolore attraverso lo specchio del dispositivo – che non fa altro se non amplificare quello che già vogliamo vedere – e il dolore vero.
La realtà del dolore è sempre e comunque fuori dallo schermo: è sotto le macerie, sul campo di battaglia, dove il costo della guerra è inciso su ogni rimasuglio di vita, su ogni pezzo di carne bruciata.
Il tenente generale Frank Benson (un formidabile Alan Rickman alla sua ultima interpretazione cinematografica) è stato infelicemente partecipe delle immediate conseguenze di cinque attacchi suicidi con cinture esplosive. Sul campo di battaglia, appunto. A pochi passi dai cadaveri. Sa cos’è terribile e cosa lo è ancora di più. Sa che una bomba umana lasciata libera di esplodere in una zona affollata causerà certamente più vittime di un missile hellfire lanciato con calcolo certosino contro un gruppo di terroristi pronti, per l’appunto, a farsi saltare in aria.
Questa è la scelta, complicata da una serie di terribili coincidenze e dagli inevitabili danni collaterali, che un gruppo di politici e militari è chiamato a compiere nell’ultimo film di Gavin Hood, Il diritto di uccidere, quando la delicatissima missione Egret, condotta con nervi d’acciaio dal colonnello Katherin Powell (Helen Mirren) con la mediazione presso le alte sfere inglesi di Benson, si trasforma da un’operazione di cattura di una cittadina anglosassone radicalizzata in un intervento destinato a sopprimere membri importanti del gruppo somalo Al-Shabaab, tra cui anche due cittadini statunitensi, prima che possano mettere in atto i loro piani terroristici in Kenya.
Col mutamento di scenario cambiano anche le regole d’ingaggio: lì dove sarebbero bastati l’intelligence e la mera esecuzione di un ordine di cattura da parte delle forze alleate kenyote, subentra la necessità di un atto di forza e di qualcuno che se ne prenda la responsabilità. E, paradossalmente, è proprio la tecnologia con le sue immagini in tempo reale, i suoi dispositivi di registrazione e trasmissione, i satelliti, i droni, gli zoom estremi e gli innumerevoli angoli di visione a rendere più difficili le decisioni.
I droni, veri e propri protagonisti del film del regista sudafricano – e di lavori certamente meno riusciti come Good Kill di Andrew Niccol – sono occhi che scrutano dal cielo (da qui il titolo originale del film – Eye In The Sky). Occhi grandi di aeroplani, occhi piccoli d’uccello, occhi minuscoli di scarafaggio. Volano con l’incuranza di chi non ha vene né sangue, di chi non ha anima ma solo cervello (elettronico) e occhi (meccanici). Esanimi, privi di sensi, inutilizzabili come una camera da presa senza operatore. Così una serrata sessione di lavoro politico-militare diventa metafora della società dell’informazione digitale e della macchina burocratica, ma dove il soggetto che dovrebbe agire attivamente e prendere decisioni risolutive si lascia soverchiare dall’iper-tecnologizzazione, dal cappio del consenso politico, dalla paura del giudizio d’un tribunale. Diventando quello che Hannah Arendt avrebbe definito un “uomo indifferenziato”, spersonalizzato, ignavo e, perciò, dantescamente dannato, infernale.
Questo perché gli occhi che abbiamo disseminato per il mondo ci restituiscono una cornucopia di informazioni eccessive, scombussolanti. Vedere troppo, con troppi occhi e da troppi punti di vista contemporaneamente, ci riconsegna l’insostenibile complessità del reale, trasmessa integralmente dalla potenza dei mezzi di riproduzione e sottratta ai limiti dello sguardo del singolo uomo, amplificando la consapevolezza delle conseguenze di ogni nostra azione come un microfono amplificherebbe il rumore di una foglia che cade al suolo. E’ l’onniscienza di chi tutto (pre)vede e nulla sceglie, la danza del dubbio, il balletto delle responsabilità, il dilemma morale che si scarica, come in un vortice, su chi è chiamato ad agire materialmente, il pilota di Aroon Paul.
Nell’interpretazione, coerente con il resto della sua filmografia, di Gavin Hood, il classico film di guerra abbandona, quindi, il guscio d’acciaio dei proiettili e delle bombe a favore dello scontro delle argomentazioni, della dialettica del dialogo e della negoziazione, della pressione psicologica e di angoscianti, quanto precise, scelte etiche. Come piacerebbe a Lumet.
Hood confeziona un mix tra war movie, political movie e ticking clock thriller dal ritmo convincente e ricchissimo di dettagli veristi. Mette insieme una corsa adrenalinica contro il tempo sfruttando il potenziale ansiogeno del coordinamento su scala internazionale, dimostrando di aver imparato la fondamentale lezione hitchcockiana del “far soffrire il pubblico il più possibile”.
Il diritto di uccidere funziona – benissimo – finché, come dicevamo all’inizio, riesce a tenere il dolore vero fuori dallo schermo, ovvero prima del finale. Poi cede il passo alla tentazione dello sciacallaggio, va a scavare sotto le macerie, entra negli ospedali e nel dolore privato, risolvendo con un po’ di goffaggine il “dilemma del carrello”, mostrandoci, inutilmente, dove e con quanta potenza va a schiantarsi sulle inevitabili vittime. Sciogliendo, annacquandolo un po’, quel groviglio di dubbi che ci attanaglia e ci tiene svegli sull’orlo del precipizio all’alba di ogni scelta decisiva.