Woman in Gold
Simon Curtis racconta, senza sbilanciarsi né approfondire il tema, lo straordinario caso giudiziario che tolse all'Austria un celebre quadro di Klimt.
Nel 2006 apparve su tutti i giornali la notizia che una piccola donna novantenne era riuscita a vincere una causa contro niente meno che il governo austriaco: oggetto del contendere erano alcuni quadri di Gustav Klimt, in particolare il celebre ritratto di sua zia Adele, di cui si erano impossessati i nazisti durante il terzo Reich rinominandolo – dato che l’oggetto del dipinto era pur sempre una bellissima donna ebrea – La donna d’oro.
Il caso giudiziario di Maria Altmann vs la Repubblica Austriaca riguardava il problema etico di far godere al pubblico di tutto il mondo la vista di un’opera la cui presenza dentro il prestigioso museo del Belvedere di Vienna documentava non solo un pezzo fondamentale della storia dell’arte, ma anche la distruzione di un’intera famiglia.
Nella locandina italiana di Woman in Gold, di Simon Curtis, appare la dicitura “ dai produttori di Philomena” ed è questa un’annotazione affatto casuale, data la profonda similarità fra i due film. Due storie vere, due passati tragici, due donne che in tarda età lottano per riavere indietro qualcosa che hanno perduto, e due grandi interpreti cinematografiche: tocca stavolta ad Helen Mirren ricalcare il ruolo della simpatica quanto profonda signora anziana già recitato in un altro contesto da Judi Dench, mentre il suo compagno di avventure è ora l’avvocato Randy Schönberg (nipote dell’omonimo compositore austriaco) interpretato qui da Ryan Reynolds.
Il problema di Woman in Gold sta però proprio nel sembrare più un prodotto fondato su una formula di successo ormai consolidata, che un racconto realmente meditato. Troppe le dinamiche che richiamano schemi narrativi accattivanti, dall’improbabile accoppiata di due personaggi apparentemente diversi alla simpatia stereotipata della protagonista, che appare costretta a soddisfare le pretese del classico ruolo della donnina anziana ma ancora tenacemente arzilla, capace di conquistarsi con i suoi modi e la sua triste storia i favori di collaboratori inizialmente poco propensi a offrire il proprio aiuto. Eppure, di tematiche capaci di fare del film di Simon Curtis un’opera autonoma e rilevante ce ne sarebbero in gran quantità: dalle contraddizioni morali di una storia museale dell’arte fondata spesso su furti e conflitti bellici, al problema del risarcimento delle vittime di guerra, senza dimenticare la questione inerente la distruzione della propria identità subita da tutti gli ebrei a cui venne negato in epoca nazista il diritto di considerarsi austriaci e tedeschi.
Maria Altmann e il suo avvocato condividono lo stesso passato esule - anche Arnold Schönberg fu costretto ad abbandonare l’Austria a causa delle persecuzioni antisemite – e il concetto tragico, quasi schizofrenico, di una patria d’origine che ha consapevolmente eliminato una parte di sé, rapportandosi però in maniera profondamente ambigua con i prodotti artistici e intellettuali della comunità che voleva cancellare dalla terra. Ad opere messe al rogo e al bando si accompagnano difatti migliaia di capolavori sequestrati e rinominati come propri: la ferita storica si fonda sul desiderio di distruzione, sul senso di colpa che ne consegue, ma anche sull’amore tuttavia incontrastato per le creazioni di artisti che allo stesso tempo finivano sulle liste di morte. Di tutto ciò non c’è traccia in Woman in Gold, che si accontenta di offrire un racconto commovente ma non troppo stratificato, capace solo di offrire giusto una riflessione semplice senza ulteriori elaborazioni mentali.