Il grande Gatsby

Sinestetico film-concerto avvolgente e totalizzante, il cinema di Baz Luhrmann viene spesso preso come esempio plateale, quasi scolastico per la sua limpidezza teorica, del cinema postmoderno, specie per la sua capacità di riferirsi al mondo come ad una piatta distesa carica di connessioni orizzontali tra frammenti infinitamente mutabili e ricombinanti. L’adesione a tale paradigma è però tanto evidente quanto superficiale; i suoi film rappresentano spesso l’aspetto più epiteliale, sgargiante e compiaciuto del postmoderno, un’accettazione principalmente estetica che rimane lontana dalla dimensione esistenziale del fenomeno che altri e ben più essenziali autori sono stati capaci di cogliere a più riprese. Se film profondamente postmoderni come Synecdoche New York o Holy Motors sono ad esempio emblemi del vivere contemporaneo, il cinema di Luhrmann è stato tutt’al più capace di mostrare come la globalizzazione abbia permesso di raggiungere e combinare le produzioni culturali più variegate come fossero organizzate in un immane magazzino mondiale, senza però indagare gli effetti e le contraddizioni insite in tale possibilità ma anzi affogandosi in essa all’unico scopo di arrivare all’estrema stimolazione del nervo ottico. Per Luhrmann ogni elemento del mondo è raggiungibile, combinabile e può divenire soggetto scopico, e se in questo accumulo eccesso e qualità dovessero finire per fondersi tra loro tanto da rendersi inseparabili, ben venga.

Moulin Rouge! rappresenta l’esito più plateale di tale posizione, e non a caso la sua totalità costituisce un punto di svolta nell’opera di Luhrmann, un cambio di direzione aperto dal successivo Australia e confermato da questo Il grande Gatsby. Il regista australiano pare aver abbandonato (a parte per la componente musicale) la fusione più estrema di elementi lontani tra loro – i collage geografici e temporali capaci di trasportare l’India nella Montmartre di inizio Novecento – a favore di un recupero citazionista più uniformemente direzionato, rivolto al cinema della Hollywood classica tra gli anni ‘30 e ’50. Con ciò ovviamente non viene meno il gusto per il kitsch e l’eccesso tipico del suo cinema, che anzi trova nuovo veicolo d’espressione in una costruzione ancor più patinata e artificiosa dell’immagine, che passa dall’accumulo di elementi eterogenei al caricamento eccessivo e spudoratamente pacchiano del primo e primissimo piano. Ma se in Australia questo nuovo registro appariva smorto e mal pensato, specie per l’incapacità manifesta di recuperare il respiro del cinema preso come riferimento, ne Il grande Gatsby la miscela, sorprendentemente, funziona, portando ad un film sicuramente poco approfondito dal punto di vista psicologico ma anche passionalmente coinvolgente, capace finalmente di far sentire e non solo mimare la propria radicale emotività.

Rispetto alla sceneggiatura originale di Australia, Il grande Gatsby parte con l’ovvio vantaggio della sua nobile origine. Il testo di Fitzgerald è uno dei capisaldi dell’arte del Novecento, un’esperienza di lettura da ripetere e rincontrare più volte nella vita, sempre foriera di stimoli ma soprattutto carica di amara bellezza oltre ogni dire, una parabola che traccia il perfetto ritratto della sua generazione fino a preconizzarne il disastroso finale della crisi finanziaria. A Luhrmann però poco importa dell’intrinseca fatalità degli anni del jazz, come anche il suo parallelismo con la crisi di oggi; è l’amore contrastato di Gatsby per Daisy ad attirare la sua attenzione. Il suo del resto è sempre stato un cinema dalla struttura duale, non tanto per le coppie di innamorati che abitano regolarmente tutti i suoi film quanto per il loro farsi paradigmi di due mondi a confronto, realtà opposte che si attirano tra loro in una tensione dagli esiti spesso letali. Che si tratti di Montecchi e Capuleti, giovani bohemien in fuga da una vita borghese e disinibite ballerine di Montmartre, figli di contadini arricchitisi e viziate dame d’alta borghesia, i protagonisti del cinema di Luhrmann sono sempre vittime di sentimenti improvvisi e incontrollabili che li portano a confrontarsi con l’alterità, nel disperato tentativo di evadere dagli schemi precostituiti, dalle famiglie, dalle classi sociali, per potersi abbandonare al sentimento principe di questo cinema, l’amore. E’ sempre il mitologema di Romeo e Giulietta quello che Luhrmann ricrea con ogni sua opera, affrontato direttamente con Romeo + Giulietta e declinato poi in più varianti, in un percorso che lo porta ad approdare con logica naturalezza al capolavoro di Fitzgerald oggi e al remake di Casablanca in futuro, come annunciato in questi giorni a Cannes dallo stesso regista.

Questa predilezione per la componente emotiva del racconto si traduce in una particolare attenzione nella direzione degli attori, e non a caso gran parte del giudizio positivo sul film è dovuto all’ennesima splendida interpretazione di Leonardo Di Caprio; l’attore, in costante maturazione, offre qui una delle sue prove migliori per intensità e sottigliezza delle variazioni. E’ grazie a lui che tanti dei primissimi piani che costruiscono il film perdono il loro carattere più kitsch a favore di un impatto emotivo così coinvolgente. Qui Luhrmann ritrova chiaramente il Suo attore, quello capace di reggere soluzioni visive tanto insistite da sembrare pubblicità di moda come un tempo rendeva autentici dei versetti shakespeariani recitati in camicia hawaiana e con una pistola in mano. Quasi tutto il cast appare comunque decisamente centrato, dal violento Tom Buchanan dell’australiano Joel Edgerton alla perfetta Jordan Baker di Elizabeth Debicki; a fare eccezione sono in parte Tobey Maguire, penalizzato dall’impronta molto passiva decisa per il suo personaggio, e proprio lei, Carey Mulligan, alle prese con il difficile ruolo di Daisy, della quale confonde l’eterea noncuranza con una mono-espressività di radicale piattezza.

Come accennato, nonostante quest’evidente impegno profuso nel casting Il grande Gatsby trova il suo limite proprio nella scarsa profondità dei suoi personaggi, un mancato sviluppo – lo stesso che era così evidente nella versione del 1974 – che forse suggerisce un limite intrinseco all’adattamento di questo romanzo, un’irriducibile filigrana fusa nella prosa di Fitzgerald e inseparabile dalle sue parole. Per il resto l’adattamento di Luhrmann è particolarmente fedele; moltissime sono le battute riprese direttamente, e a parte un’impropria accelerazione nella parte finale l’unico vero cambiamento riguarda il personaggio di Nick Carraway, il narratore del libro. Luhrmann infatti costruisce per lui una cornice con la quale poter giustificare il ricorso alla voce narrante, escamotage convincente che, oltre a portare a scene di grande impatto come il finale e le sue scritte in sovrappressione, ne accentua il carattere testimoniale. Il Nick di Luhrmann è un puro osservatore, privato della sua relazione con Jordan Baker e utilizzato come mero viatico scopico, con uno slittamento che rimarca l’interesse prevalente di Luhrmann per l’immagine, fame bulimica di visione che fortunatamente qui riesce a non ingoiare tutto il film. L’impianto visivo de Il grande Gatsby è infatti molto più controllato di quanto ci si poteva aspettare; ci sono feste sontuose e sgargianti ricostruzioni d’epoca, voli panoramici in digitale e derive pubblicitarie nella costruzione dell’immagine, ma quasi sempre queste sono piegate, se non alla creazione di complessi personaggi, perlomeno a rendere l’emozione del racconto.

In definitiva non sono lo sfarzo, le danze, la musica assordante o le sfrenate corse in macchina a contare, è il ritmico pulsare di una luce verde il cuore del film, il lento battito del sogno che ci sospinge in avanti, tanto accecante da celare la voragine su cui poggia in equilibrio precario, dondolante sul vuoto come una barca che beccheggia alla deriva.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 03/01/2015

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