Il viaggio di Arlo
La Pixar unisce epica e western giurassico per un racconto estremamente classico che fa della semplicità il proprio punto di forza, oltre che vettore di un salto tecnologico che lascia senza fiato.
Che si tratti di giocattoli o macchine parlanti, emozioni antropomorfe che si si spartiscono la guida della nostra psiche o robot solitari che compattano la nostra futura immondizia, il mondo narrativo e poetico creato dalla Pixar ruota sempre attorno agli stessi nuclei: l’importanza delle emozioni e dei rapporti umani, amicali o familiari che siano, in relazione ai grandi cambiamenti che scandiscono la vita.
Da più di vent’anni la Pixar narra di sfide da affrontare, traumi da superare, paure da esorcizzare, un parco tematico che rappresenta forse l’esempio contemporaneo più alto e consapevole di come il cinema sia chiamato, anche, a ripetere se stesso. E’ solo nella ripetizione infatti, nella continua evocazione di miti e passaggi della nostra narrativa più classica, che anno dopo anno possiamo tornare a confrontarci con le parti più essenziali di noi stessi, quei punti cardinali che ci definiscono come individui appartenenti ad una collettività di nostri simili. Pur nella specificità di ciascun spettatore, la Pixar ha costruito il suo successo sulla capacità di calarsi in questa rete di emozioni e riti condivisi, e un film come Il viaggio di Arlo aderisce pienamente a tale filosofia, che sposa a tal punto da fare dell’essenzialità e della semplicità i suoi punti di forza.
Nel mondo di Arlo, giovane Apatosauro dal fisico debole e la mente spaventata da ogni cosa, i dinosauri dominano ancora la vita sulla Terra, un anacronismo che li ha portati al confronto altrimenti impossibile con i primi essere umani. Di questi primitivi il film ci introduce soltanto il piccolo Spot, orfano allo strato brado diventato più cane che uomo, assieme al quale Arlo si unirà in un lungo viaggio per ritornare alla propria casa.
Il percorso dei due porterà Arlo ad affrontare le proprie paure, incarnate da alcuni personaggi ostili incontrati lungo la strada ma soprattutto da Madre Natura, vera antagonista del film. In piena fedeltà ad un canone avventuroso, se non direttamente epico, Arlo è chiamato a superare una sfida dopo l’altra in un percorso che lo conduca all’età adulta, un rito di iniziazione che guarda al viaggio dell’eroe e trova il suo apice nel superamento del lutto paterno. Cristallino, rigoroso, asciutto nella sua retorica familiare ed educativa, Il viaggio di Arlo dimostra come la semplicità possa trasformarsi in profondità nelle mani giuste, anche quando la materia narrativa viene asciugata tanto da ridursi alla sua vettorialità di base.
Un’essenzialità che non a caso la Pixar decide di ricondurre al fondamento del cinema americano, il western, evocato dal ritratto agreste dei dinosauri e dagli splendidi scenari naturali in cui vengono inseriti. Consapevoli del carico semantico di determinati paesaggi americani, gli autori del film lavorano di suggestioni visive e istaurano un richiamo costante con la tradizione della frontiera, rievocata anche da topoi narrativi come le scene con la mandria di bisonti. Trasformati in agricoltori e pastori, i dinosauri di Peter Sohn sono dei nuovi padri fondatori, impegnati a coltivare la terra per sopravvivere all’inverno e consapevoli di come solo attraverso la forza della famiglia si possano affrontare le sfide imposte dalla Natura.
Tutt’altro che banale, Il viaggio di Arlo è allora l’ennesimo tassello del mondo Pixar dedicato all’ingresso nell’età adulta, una parabola che aderisce ai canoni più tradizionali traendo forza dalla sua classicità, anzitutto dal punto di vista visivo. E’ impossibile infatti non notare come a fronte di un’ambizione narrativa più contenuta questo lavoro Pixar segni realmente un nuovo standard per quanto riguarda la resa in CGI dell’ambientazione naturale, i cui elementi primari come la vegetazione e l’acqua sono arrivati a livelli di fotorealismo davvero straordinari.