Lee Unkrich ha affermato che, sebbene i film Pixar siano assolutamente hi-tech, alla loro origine ci sono storie e personaggi sbocciati dall'immaginazione e dalla traccia di una matita sulla carta. Per dirla in altre parole, durante gli ultimi venticinque anni, la mitopoiesi messa in atto dalla casa di produzione ha utilizzato l'avanguardia tecnologica per portare in scena la più classica delle narrazioni umane: il viaggio dell'eroe alla ricerca di sé stesso. Verso l'infinito e oltre è diventato un mantra da fare proprio per spostare un po' più in là i confini dell'animazione, accompagnato a braccetto da quel Questo non è volare, questo è cadere con stile che proprio in Onward – Oltre la magia, più che in qualsiasi altro film Pixar recente, assurge a concetto chiave del racconto. È altrettanto palese, però, quanto, nel corso dell'ultimo decennio circa, l'altra grande ossessione del team sia stata quella della memoria, un baratro all'interno del quale precipitare e abbandonarsi o, viceversa, una magia a partire dalla quale creare (e vivere) un'illusione pee recuperare il tempo perduto.
Dopo un prologo che sembra uscito da una fiaba notturna di M. Night Shyamalan e che contamina l'universo reale con quello soprannaturale, il racconto presenta Barley e Ian, due fratelli che, al compimento dei 16 anni del minore, ricevono in dono dal padre un bastone magico, fabbricato poco prima della sua morte. Ian è un adolescente come tanti, è insicuro e impacciato; al contrario suo, l'esuberante Barley è un vulcano di idee ed è appassionato di storie fantastiche. Quando si rendono conto che il bastone magico può riportare in vita il genitore - ma per sole 24 ore - , i due fratelli daranno vita a una lunga avventura contro il tempo per poter, finalmente, rivedere il volto del loro papà.
Se in Coco si attraversava il confine tra la vita e la morte per mezzo di un ponte coloratissimo teso tra due culture diverse, Onward – Oltre la magia si affida a un ponte invisibile ai più. Il mondo costruito dal regista Dan Scanlon è infatti un contesto fatato in cui, però, la magia è stata progressivamente accantonata a causa dello sviluppo della tecnologia. Non tutti, quindi, riescono a credervi, men che meno a prestare fede ai valori antichi da riscoprire, sotto strati e strati di compromessi evolutivi, per comprendere e modellare gli orizzonti futuri. Per recuperare la magia, però, non basta semplicemente applicare le formule alla lettera ma, piuttosto, sentirsi parte di una storia, raccontare sé stessi e trasformarsi in personaggi di una narrazione che sappia tendere una mano all'invisibile. E il film di Scanlon è pieno di attimi difficili da notare ad occhio ma in grado di infiammare il cuore di un qualunque spettatore. Tra gli squarci improvvisi, è impossibile non emozionarsi davanti al finale e a quell'abbraccio reso possibile soltanto dal cinema, macchina dei sogni per eccellenza capace di trasformare un fantasma in bambino anche se solo per pochi minuti, il tempo necessario per farlo ballare romanticamente con l'unica persona che lo avesse mai compreso.
Se la magia di cui parla Onward è proprio quella che traghetta tutti gli esseri umani dall'adolescenza all'età adulta -un percorso ostico ricco di ostacoli e imprevisti da affrontare con coraggio per giungere a un piano di consapevolezza differente- , quella della Pixar - e del cinema tout court - è la magia che (ri)porta in vita un nostro desiderio, la danza liberatoria in cui busto e gambe di padre e figli si sovrappongono, due mani che provano a sfiorarsi e a sfidare l'impossibilità del gesto, due dita che si lambiscono e che rendono materiale la natura di un legame intangibile. In questo inno al brivido e all'emozione, soltanto l'ardore del cuore può darci il coraggio di costruire ponti immaginari da attraversare su buie voragini.