A ben pensarci, Toy Story 4 ha rappresentato una doppia sfida.
Da una parte si poneva la necessità di dimostrare che le idee, in Pixar, sono ancora al centro di un discorso ampio e stratificato e che quindi la logica dei sequel non sta a indicare una mancanza di idee o solo la necessità di piegarsi alle logiche del marketing. Gli Incredibili 2, Monster University, Cars 3, Alla ricerca di Dory: tutti questi sequel, con alti e bassi, hanno dimostrato che lo spirito intellettuale che da sempre emerge nelle opere Pixar c’è ancora, pur privo di quella forza rivoluzionaria che ha contraddistinto il decennio magico che va dal 1999 al 2010 (ma su questo torneremo più avanti). Toy Story 4 era soggetto ancora di più a queste critiche, venendo dopo quel gioiello che fu Toy Story 3, così definitivo, radicale da far risultare inutile un quarto capitolo.
La seconda sfida di Toy Story 4 è indicativa di quale direzione la Pixar intenda prendere e, soprattutto, se è in grado di farlo. Come si sa, John Lasseter si è dimesso dalla guida di Pixar (e Disney) in seguito allo scandalo sessuale esploso con Harvey Weinstein e che ha colpito molte figure note a Hollywood. Pixar, dunque, è priva del suo padre fondatore e Toy Story 4 è il primo film in cui Lasseter appare solo di striscio (soggetto, produzione esecutiva). Avrebbe dovuto dirigerlo, perché Toy Story è una sua creatura, è il simbolo della Pixar, è il primo film in assoluto della casa di produzione con base a Emeryville. Ma lo scandalo sessuale, evidentemente, ha avuto le sue conseguenze e prima che Lasseter si prendesse un semestre sabbatico (novembre 2017), casualmente abbandona la regia dell’opera a cui è più legato (luglio 2017). Se è vero che non aveva diretto il terzo episodio, è altrettanto vero che la sua presenza in fase di produzione aveva permesso al film di essere fatto, nonostante la genesi molto travagliata. Questa lunga introduzione per dire che Toy Story 4, al netto dei dubbi che lo hanno caratterizzato prima della sua uscita ufficiale, rappresenta in qualche modo un crocevia.
Si diceva del “decennio d’oro” della Pixar. Si è aperto non a caso con Toy Story 2 nel 1999 e si è concluso con Toy Story 3 nel 2010. In questo arco di tempo sono uscite opere dall’immenso valore artistico e intellettuale: Monster & Co., Alla ricerca di Nemo, Gli Incredibili, Cars, Ratatouille, WALL•E, Up. Tutti film che hanno decretato definitivamente la Pixar come uno tra gli studi più importanti nel panorama internazionale, consegnandola alla storia del cinema. Toy Story, quindi, ha avuto anche un ruolo strategico nel delineare le fasi creative della Pixar, scandendone i momenti cruciali.
Poi c’è l’aspetto tecnico. È stato giustamente messo a confronto il cane di Toy Story (1995) con il gatto di Toy Story 4 (2019). In ventiquattro anni il balzo tecnico è stato così risolutivo da obbligarci a chiederci dove andrà l’animazione in computer graphic, su quali lidi visivi si posizionerà. La sequenza iniziale del quarto capitolo, quella sotto la pioggia, è strabiliante per perfezionismo tecnico: qualcosa che, nonostante i progressi, lascia a bocca aperta. Quindi, Toy Story 4 segna, ancora una volta, un importante capitolo nell’evoluzione tecnica dell’animazione contemporanea: una finestra sul futuro.
Ripensando alla mitopoiesi messa in scena nella saga, appare ovvio come tutti i vari film di Toy Story abbiano a che fare con il passaggio all’età adulta. La struttura narrativa tende a reiterarsi e questo, forse, è un po’ il suo limite: un personaggio si perde, gli altri lo cercano, nella ricerca scoprono qualcosa di sé. Ma è vero che la genialità di Toy Story è il saper raccontare le fasi dell’esistenza da un punto di vista privilegiato, quello del giocattolo passivo ma attento che, malinconicamente, osserva il mutare dell’uomo, dall’infanzia all’età adulta. E se i primi tre capitoli erano una poetica riflessione su questo transito (con particolare enfasi nel terzo episodio, quando Andy è ormai troppo grande per giocare e si rivela necessario un passaggio di consegne attraverso un doloroso addio), il quarto capitolo compie uno scarto. È quasi un’appendice del terzo, ma trasla il discorso: dall’uomo al giocattolo. La domanda che si pone il film (ma evidentemente tutta la saga) è: cosa significa diventare adulti?
Significa dimenticare i propri sogni? La propria innocenza? Forse.
Sicuramente diventare adulti è anche acquisire una coscienza tale da poter trovare il coraggio per fare il passo successivo, quello definitivo, quello che implica abbandonare il passato (dolce, caldo, nostalgico) e affrontare il futuro (incerto, ricco di paure). È quello che succede a Woody. È l’unico fra i giocattoli ad ammettere di avere una coscienza, questo lo porta ad avere un piano di consapevolezza diverso. E, a percorso intrapreso, riemerge come nuovo, forgiato, pronto ad affrontare nuove sfide.
Verso l’infinito e oltre.
Oltre è il futuro.
Oltre è lo sconosciuto.
Oltre è il nuovo sé che prende corpo e che, lentamente, cancella il passato e l’infanzia verso l’età adulta.
Quindi, se è vero che Toy Story 4 è un’appendice al terzo episodio, è anche vero che è la conclusione necessaria, quella che mancava.
Imperfetto, ripetitivo, ma poeticamente meraviglioso.
Verso l’infinito e oltre (di noi stessi).